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Mi sono vomitato, mi sono creato, trasformato, rispu-tato, e più volte. Questa era la mia dose: cinque botti-glie di Wyborowa alla settimana, tre pacchetti di Marlboro senegalesi al giorno, due Prozac. Lexomil per dormire, tre quarti. L’ultimo quarto appena sve-glio, un attimo prima di accendere il computer. Avevo il viso rovinato dai graffi, mi si squamava la pelle: allo specchio, una maschera oscena faceva finta di sorri-dermi. Le mie unghie assomigliavano a delle virgole, e sanguinavano. Appena sveglio, controllavo la posta. Leggere, rispondere, sollecitare, tender trappole, mentire ancora. Trapassare con lo sguardo foto un po’ sfocate, cercare di indovinare le intenzioni nascoste dietro annunci vuoti o maliziosi, annunci che diceva-no troppo o troppo poco. Ero nudo davanti allo schermo, sudavo, volevo andare più in fretta, non mangiavo quasi più. Per reggere mandavo giù uova sbattute con un po’ di pepe. E tenevo botta. Nessuno me l’aveva detto che c’era un’entrata a questo labirin-to, ma forse nessuna uscita, e al centro nessun mostro.
O forse, sì, uno, ma davvero troppo difficile da ucci-dere, perché moltiplicato dagli specchi.
Era stata Anne a parlarmi per la prima volta di
pointscommuns.com. Andavo a letto con lei quando aveva sedici anni e abitavo a Batignolles, poi per un pezzo c’eravamo persi di vista.
«Un sito d’incontri,» mi aveva spiegato «ma diver-
sissimo dagli altri. Un sito che si basa sulle affinità cul-turali, sui gusti condivisi.» Era riuscita a convincermi: «Mica puoi continuare a giocare a scacchi tutte le not-ti come un autistico, no? Dovresti uscire un po’, cono-scere gente.».
Quel pomeriggio, al tavolino del bar di rue Claude
Bernard, mi era parso di scorgere nel suo sguardo una dolcezza mista a compassione. «Basta iscriversi, vedrai.» La via era quasi deserta. Solo qualche pas-sante si attardava davanti alla vetrina della libreria di fronte; e ripenso alle gambe bianche di Anna, alla sua gonna troppo stretta. Dire che non sapevo cosa mi aspettava, in quei primi giorni di settembre, è dir poco.
Due settimane prima, Judith non si era presa la bri-
ga di rispondere a un messaggio di routine che le ave-vo spedito prima che partisse per il fine settimana da un’amica in campagna. Tipo: «Mi mancherai». Quasi subito dopo aver mandato il messaggio, avevo avuto la netta sensazione che le cose non potevano più con-tinuare così: tutto andava a catafascio. Il mese d’estate trascorso nella casa di suo padre, il Grande Filosofo,
nel Sud, aveva dato il colpo di grazia alla nostra storia. Ci eravamo massacrati. Eravamo riusciti a trasformare un mese di vacanza in un incubo interminabile. Judith non sopportava più la mia sbandierata pigrizia, i miei intempestivi accessi di onanismo, la mia mancanza di progetti con lei. Quando provavamo a fare l’amore, dopo una partita a scarabeo sul tavolo mal rischiarato del giardino (perdevo in francese, ma perdevo anche in italiano, la mia lingua madre), riuscivamo a stento a darci un po’ di piacere. La mattina, lei se ne stava in silenzio davanti al suo caffè, leggendo il giornale. L’afa era soffocante. Non avevamo più niente da dirci. Ep-pure, due settimane dopo il nostro ritorno a Parigi, quando mi disse che voleva una pausa di riflessione, sentii che qualcosa si spezzava in me. Stavano per fini-re tre anni di vita in comune, così, di colpo.
In quel mese di settembre le notti erano fresche.
Scendevo per la rue Ménilmontant con lo sguardo as-sente. Davanti al banco di un bar qualunque mi ac-cendevo una sigaretta, poi, con il mozzicone, ne ac-cendevo un’altra, gli occhi fissi sui vecchi poster di cantanti arabe che tappezzavano le pareti (erano splendide e desuete. Il tempo doveva averle fatte fuo-ri da un pezzo, riflettevo). Certe sere chiamavo qual-che amico che, troppo spesso, non aveva tempo. Quando una notte scoppiai in lacrime davanti a Julien e Bernardo disorientati, la cameriera, una vecchia ca-bila dai capelli tinti d’henné, mi riempì fino all’orlo un bicchiere di cognac, senza fare commenti. Ero a pezzi. La mattina mi svegliavo troppo presto, con lacci invi-
sibili che mi stringevano il collo e un silenzio acuto nei timpani. «Purché spariscano quel tuo sguardo fisso,la tua parola precisa, il tuo sorriso perfetto. Purché accada qualcosa che d’improvviso ti cancelli,una luce accecante, un bagliore di neve.»
Avevo mandato a Judith queste parole di una can-
zone di Silvio Rodríguez sperando che capisse. Ma cosa doveva capire? Non riuscivo ad ammettere che la sua decisione era la migliore. Che rappresentava una liberazione per entrambi.
Una sera, completamente sbronzo dopo aver assisti-
to alla presentazione di un libro, avevo tradito la pro-messa di non parlarle più, di non scriverle più. Il tele-fono aveva suonato più volte nel vuoto. Finalmente la sua voce, imbronciata. Stava bevendo un aperitivo con un amico, la disturbavo. «Solo cinque minuti» le avevo assicurato con voce malcerta. Mi aveva ascoltato per mezz’ora, in silenzio, straparlare di bambini mai nati e di case che avremmo potuto ristrutturare dalle parti di Béziers. A un certo punto mi aveva interrotto con fer-mezza: «Tra di noi non può funzionare». Quella tele-fonata aveva scatenato l’esplosione definitiva. Appena sveglio, aprivo il frigo e mi servivo una vodka. E, qual-che giorno dopo, in uno stato di avanzata ubriachezza, avevo chiamato Anne. Che si era preoccupata.
Fu l’inizio di una notte bianca che sarebbe durata
un anno intero, trasformando, con il bagliore dei suoi pixel, le mie veglie e i miei amplessi.
Compilo il formulario di iscrizione a pointscommuns. com. Altezza, peso, portamento («di gradevole aspet-to», «in armonia con me stesso».). Aggiungo una fo-to in bianco e nero dove fumo una sigaretta seduto alla finestra. Nella casella “Relazione ricercata”, ten-tenno. «Amore»? No grazie. «Amicizia»? A che pro? «Avventura» è una parola assai suggestiva, ma «Dialo-go» è meglio. Perché lascia tutto aperto, con una pun-ta di mistero. Come professione scelgo «Fioraio». Più in là proverò col più vago «Altre». Non mi resta che buttare giù un “annuncio” (Anne mi ha fatto capire che è un dettaglio capitale), ma all’inizio non mi viene in mente nulla e lascio la pagina in bianco. Come alias, trovo qualcosa di piuttosto sofisticato: Delacero, una parola scoperta in un libro sui bordelli italiani. Nelle case di piacere di lusso, sino alla fine degli anni Cin-quanta (prima che un’imbecille di prima categoria non decidesse, con una legge assassina, di chiudere le “case chiuse”), si poteva disporre dei servizi del dela-cero. Se un cliente aveva voglia di scopare una prosti-
tuta insieme a un altro uomo, veniva chiamato il dela-cero. Se voleva guardare la ragazza farsi chiavare da un altro, pagava un supplemento per guardare il delacero all’opera. Quando, nel corso degli incontri, mi verrà chiesto il significato dell’alias, inventerò etimologie strampalate («È il nome di un amico morto», «di una città del Sud Italia», «di un gioco dalle regole compli-catissime»). Nessuna voglia di dare spiegazioni.
Posso definire il mio carattere con aggettivi come:
“simpatico”, “viaggiatore”, “tollerante”, “incasina-to”, “umano”, “timido”, “rock” ecc. Inizialmente “curioso/segreto”, Delacero diventerà qualche tempo dopo “estroverso/introverso”. Davanti a “Situazione economica”, esito tra i due estremi «Agiato» e «Fine mese a secco». Potrei evitare di dilungarmi su un argo-mento tanto delicato e dichiarare «Lo tengo per me», ma la cosa risulterebbe forse un po’ sospetta. Visto che ho sempre preferito la finzione alla realtà, barro la pri-ma casella. Nella rubrica “Dipendenze”, le includo tut-te tranne il sesso, che brilla così per la sua losca assenza.
Una volta regolate con un colpo di Visa le spese di
abbonamento, ho finalmente accesso alle pagine degli altri utenti.
Contemplo divertito i volti di tutte queste ragazze
appuntate come farfalle sullo schermo. Mi viene da chiedermi se l’azione di aprire – a volte più volte di seguito – la loro scheda, azione generata da una sem-plice pressione del dito sul mouse, non corrisponda a un inizio di penetrazione.
A forza di inviare mail alla cieca alle ragazze che
mi sembrano attraenti – mail piuttosto educate, nelle quali elenco brevemente le mie passioni confessabi-li – riesco abbastanza in fretta, e contro ogni aspetta-tiva, a strappare due o tre appuntamenti.
Lili74 si chiama Miriam. Appuntamento nel suo
quartiere, al Cannibale. Bionda, minuta, Miriam, gra-fica di professione, vive a Parigi da cinque anni. Dopo due Corona, mi propone di cenare da lei. Sotto il pul-lover nero attillato, indovino seni promettenti. Il mo-nolocale è incasinatissimo e piuttosto lercio. Pochis-simi libri. Soprattutto Nietzsche e Faulkner, che non ha letto di sicuro, penso, ascoltando la sua vocina stridula che non mi racconta nulla di particolarmente originale. Anzi sì, una storiella, quella di una relazione durata quattro anni: «Voleva sempre scoparmi nello stesso modo: glielo prendevo in bocca, mi chiavava e poi me lo metteva in culo. Alla fine mi veniva in fac-cia». Il tizio aveva l’abitudine di filmarla ogni volta. A casa, studiava sullo schermo, al rallentatore, l’espres-sione di Miriam per capire se era sincera o faceva finta quando lui godeva. Turbata dalle sue crisi di gelosia sempre più assurde, lo aveva mollato. Da allora vive relazioni effimere, intrise di un forte senso di colpa. Quando comincio a svestirla, il suo sguardo reticente, lievemente imbarazzato. Non voglio forzare le cose, ma, nel dubbio, lo tiro fuori. Non avevo mai visto pri-ma, sul viso di una donna, un tale miscuglio di stupo-re e di ingordigia.
Ci rivediamo tre o quattro volte. A ogni appunta-
mento, Miriam si comporta in maniera più strana. Ar-
riva in ritardo, senza prendersi la briga di avvisare. Al-tre volte non viene proprio. Una sera riesco finalmente a invitarla a cena da me. Lei insiste per prepararmi del-le crêpes (che non le riescono). A tavola, faccio scivola-re impercettibilmente la conversazione sul porno ama-toriale, una mia vecchia passione. Miriam è incuriosita. Nella scena del film che scelgo, una biondina è amma-nettata a una sbarra, in piedi, e si fa prendere da quat-tro tizi di seguito, prima di ingoiare il loro sperma uno dopo l’altro. Sono sempre stato affascinato, nelle pro-duzioni non professionali, dalla bruttezza degli inter-preti maschili e dalle malcelate imperfezioni delle at-trici. Ma non avrei mai dovuto farglielo vedere. Le viene il vomito. Corre in bagno, e quando ne esce, pallida co-me uno straccio, mi dice che non si sente per niente bene e che preferisce tornarsene a casa. Non risponderà più ai miei messaggi. Per mancanza di tatto ho immerso Miriam nel copione ritualizzato che il suo ragazzo le aveva imposto come unica regola di piacere: il copione di ogni film porno. Qualche settimana dopo aggiungo al mio album di ricordi le cinque foto che le ho scattato col cellulare. Nella più riuscita, Miriam, il cazzo pianta-to in bocca, fissa l’obiettivo con sguardo bovino.
Nei nebbiosi pomeriggi d’inverno, quando tornavo
dal liceo con il trenino degli studenti (mentre mia ma-dre era ancora al lavoro) e mi trovavo infine di fronte al quaderno dei compiti, mi capitava spesso di accen-dere il videoregistratore e di buttarmi sul divano con un tovagliolo di carta a portata di mano. A prezzo di difficili risparmi sulle mie prime sigarette, avevo mes-
so su una filmoteca porno niente male. Quelle sceneg-giature di una banalità assurda sprofondavano le mie giornate in una fantasmagoria eccitante e incompleta nella quale mi immedesimavo in pieno. Per me, quelle immagini contenevano la stessa verità e sprigionavano la stessa forza ipnotica di un verso di Dylan Thomas. In campagna, antiche generazioni hanno scoperto l’eros guardando gli animali accoppiarsi; altre con fo-to pornografiche scambiate sottobanco; altre ancora con riviste dalle pagine appiccicaticce. Io sono cre-sciuto con immagini dai colori di una veridicità scon-certante, in movimento. Scene riproducibili all’infini-to nella camera oscura dell’immaginazione. Arianna, la prima ragazza che, a quindici anni, riuscii a pene-trare, fu la mia cavia: sperimentai la sessualità ripeten-do una lezione imparata a memoria.
“Vibrare” sulla scheda di qualcuno – pratica che gli
habitué del sito sembrano prender parecchio sul se-rio – significa che si è attirati dalla foto o dall’annun-cio. Io ne abuso volentieri. Vibro a casaccio e, grazie a questo gesto automatico, attiro sul mio profilo la visita di una decina di donne. È più raro che venga ricam-biato con la stessa moneta. Non appena una ragazza mi sembra interessata, cerco uno spunto d’approccio. Improvviso su informazioni contenute nella sua sche-da: lo scrittore prediletto, un dettaglio della presenta-zione. In un gioco dove tutti i giocatori sono masche-rati, lancio una frase a un viso che si nasconde dietro una foto. Spesso non ricevo risposta. Altre volte, il filo virtuale si tende e trema: «Hai ricevuto un nuovo
messaggio». Presto mi rendo conto che le reazioni delle persone assomigliano al movimento degli insetti. Nello stesso modo in cui ignoriamo per quale ragione uno scarafaggio senta il bisogno di spostarsi, a passi rapidissimi o più circospetti, dal lavandino al pavi-mento, non possiamo sapere cosa spinga qualcuno dietro uno schermo a risponderci.
Mentre chatto o scrivo mail accattivanti, ascolto a
volume esagerato le canzoni dei Pibes Chorros. Nes-suno, qui, sembra conoscere questo gruppo di delin-quenti cresciuti nelle periferie di Buenos Aires che cantano la cumbia callejera, una variante impazzita della cumbia tradizionale. Le parole delle loro canzoni sono particolarmente brutali, le tematiche di una stra-vagante miseria: «Nena, ti si vede il tanga» o «Le ra-gazze hanno voglia di prenderlo tutta la notte». In una delle mie preferite, La Colorada, il cantante, uno spi-lungone con lunghi capelli neri e occhiali da sole, sbraita rabbiosamente nel microfono: «È figa davanti e di dietro, peccato che non se la lavi mai». Sempre più esaltato, giro nelle volute eccitanti della melodia.
«Attenzione, le vostre foto verranno rifiutate nei se-
guenti casi: foto che violano la legge francese (istiga-zione all’odio, pedofilia, pornografia, istigazione alla violenza, attentato alla dignità umana).»
Studiando i profili, incomincio a scoprire delle co-
stanti, dei gusti comuni a tutti gli iscritti o quasi. Le ragazze, non si discute, stravedono per Johnny Depp. Ragazze e ragazzi amano i film di David Lynch. An-
che Jean-Pierre Léaud e Patrick Dewaere sono citati spesso. Numerosi membri mettono come film culto Freaks. Ritrovo in queste preferenze il debole, tipi-camente francese, per la marginalità a ogni costo, il versante “fuori legge”, ribelle o pazzo. La trasgres-sione come posa, insomma. «Les Inrockuptibles»o «Technikart»* come riferimento culturale. Mi ritorna in mente una frase di Klaus Kinski a proposito di un’intervista rilasciata alla televisione francese: «Mi avevano piazzato accanto a un intellettualuccio fran-cese, di quelli che si vanno a comprare il giubbotto di pelle al mercato delle pulci, non so se mi spiego».
Sul sito è infatti di rigore la presunzione intellettua-
le e nessuno sembra avere paura del ridicolo. Per ot-tenere un discreto successo, basta aver letto tre libri e ostentare convinzioni – anche generiche – di sinistra. Non essere un cesso, non fare strafalcioni nell’annun-cio, definirsi ateo o agnostico, tirarsela un po’ da “ar-tista” (sono sicuro che mettere “Fotografo” come professione funziona alla grande) e, soprattutto, esse-re bianco. In definitiva, corrispondo perfettamente all’identikit dell’utente di pointscommuns.com.
«Dai, miei bobos**, ancora un piccolo sforzo per di-
ventare definitivamente fascisti» è il mio primo an-nuncio.
* Settimanali culturali francesi. ** Categoria sociale codificata sociologicamente alla fine degli anni Novanta
in Francia, e più particolarmente a Parigi. Diminutivo di “bourgeois-bohème” (borghese-bohème), il bobo è un giovane tra i 25 e i 40 anni che lavora in campo artistico o comunque creativo, vota a sinistra e guadagna uno stipendio cospicuo che gli permette di acquistare vestiti di marca, prodotti biologici e tutte le novità MacIntosh. Il bobo è l’incarnazione del politicamente corretto alla francese.
Un post “aumenta la tua visibilità”. La tua foto vie-
ne stampata sul lato destro dello schermo. Questo attizza la curiosità degli altri iscritti che possono leg-gere quello che hai scritto, fare commenti in tempo reale ed “eventualmente contattarti”. Né racconto né articolo, né cronaca né poesia in prosa, né novella né pamphlet, il post su pointscommuns.com è piuttosto un testo scritto con un tono provocatorio, che cerca di attirare il consenso generale, cioè il maggior nume-ro di reazioni possibili e i migliori voti. Si direbbe che alcuni membri abbiano trovato qui una vetrina per i loro talenti letterari, spesso assai discutibili. Delacero firma una specie di poesia fatta con frammenti di altri post, un collage che intitolo: Segnalateci un contenuto corretto. Il testo suscita una larga incomprensione, qualche esclamazione indignata da parte degli utenti che si sentono depredati delle loro trovate, e una in-dubbia curiosità. Proseguo mettendo in linea un se-condo post dedicato a una guida sul cunnilingus che ho appena finito di leggere. Pubblico anche qualche lirica stralunata ispiratami dalle foto di Araki. Scrivo tre canzoni pornografiche (che però non superano l’esame dei moderatori). Mi diverto ad associare un titolo di film o di romanzo a un testo totalmente stra-vagante: versi di poeti minori e dimenticati che trovo al mercato delle pulci, antiche ninnenanne spagnole, istruzioni per l’uso di lassativi.
Uno dei guru del sito, un certo Notorius, pubblica
post a ripetizione su temi d’attualità o sui tormenti
dell’“Amore”. Mi fanno venire il vomito in capo a tre righe.
«In questo incrocio inaudito di se stessi, lei faceva l’autop-sia del labirinto e delle fratture del suo cervello metastatiz-zato di sensibilità malsana e pietosa intellettualità.»
Nei miei commenti lo soprannomino Philippe Sol-
lers, cosa che lo manda in bestia. Che un coglione del genere riscuota il plauso ammirato di parecchie don-ne connesse, la dice lunga sulla mediocrità del sito.
Forclusia è una ragazza di provincia che conosce
Lacan come le sue tasche. Lo cita a ogni frase, proba-bilmente per convincersi di averlo capito. Il nostro scambio di mail si esaurisce in fretta, e senza rimpianti.
Su un sito del genere non può mancare il poeta, e
infatti c’è n’è uno, si fa chiamare Zamirov. Fotografa-to con l’indice sulla fronte, il tipo pubblica una quan-tità inverosimile di post su diversi scrittori, tutti dei classici. E fa circolare anche i suoi versi, scanditi da assurdi punti esclamativi. È l’intellettuale impegnato del sito. L’uomo di tutte le battaglie (contro la tauro-machia e l’ingozzamento delle oche, contro il razzi-smo e il machismo, contro Sarkozy e gli oGm). Lotte virtuali, almeno. Un post su Primo Levi. Un altro su un viaggio in Senegal (del genere “pittoresco umani-tario”). Un terzo su Michel Onfray pointscommuns. com assomiglia insomma a un concorso di santità del politicamente corretto.
Mi meraviglia trovare un testo su Heidegger nella
lista dei post del giorno. L’autrice di questo inatteso pezzo critico è una certa Mimosa. Vende occhiali, o,
per essere più precisi, è quadro in una grande azienda produttrice di occhiali, mi spiega nell’ampio salotto del suo appartamento su due piani decorato con sta-tuette africane acquistate a Drouot. Tutto è impecca-bilmente borghese, lei ha un sorriso accogliente, ep-pure il fatto che mi abbia chiesto di togliermi le scarpe prima di entrare, di lavarmi le mani e di non fumare avrebbe dovuto mettermi in guardia. Fabienne viene dal Sud e non ha perso l’accento di laggiù. Che stride dolorosamente alle mie orecchie. Ma la cenetta che mi ha preparato vale il sacrificio di stare un po’ ad ascol-tarla. Ha vissuto otto anni in Germania, dove era spo-sata, è tornata da poco a vivere a Parigi. Guadagna un pacco di soldi. E Heidegger cosa c’entra? Si è riscritta all’università, a Filosofia, vorrebbe laurearsi. Mentre parliamo, prende un tono sostenuto senza poterselo permettere, come una vera parvenue della cultura, un’autentica “intellettuale”. Punteggio il dialogo con qualche osservazione volutamente spiazzante (sulla necessità di chiudere le grandi scuole di stato, per esempio), ma lei non ribatte e continua a guardarmi con i suoi occhioni azzurri, non capisco se meraviglia-ti o attoniti. Quando mi avvicino per baciarla, è scossa da un fremito. Le accarezzo il seno straripante, poi la guido verso il cazzo. A letto, scopro la sua pelle grassa e una certa riluttanza a lasciarsi inculare. Le sembra «una cosa sporca». Tutte queste manfrine mi hanno stancato, ci rinuncio e mi addormento.
Ha trentasei anni, vuole un bambino. «È il momen-
to» mi spiega la volta dopo. Corrispondo a tutti i cri-teri del suo uomo ideale. Mentre la ascolto, mi vengo-
no i brividi. Studio il modo migliore per cavarmi fuori da questa situazione imbarazzante. Io non vo-glio niente, ma proprio niente. Se non vomitare Ju-dith, e al più presto. Strapparla per sempre dai miei pensieri come un vecchio manifesto.
Quella notte mi sveglio alle tre di notte. Impossibi-
le riaddormentarmi accanto a Fabienne. Socchiudo la finestra per fumarmi una sigaretta, ma la mia filosofa si sveglia. Ha freddo, protesta; richiudo. La notte è fresca, in effetti, e io mi trovo bloccato da qualche parte nel settimo, senza un euro in tasca per il taxi. Mi volto, guardo Fabienne che si è riaddormentata con una mascherina nera sugli occhi, di quelle che si met-tono sugli aerei. Mi chiedo cosa cazzo ci faccio qui.
Tomorrow’s Headlines Market Snapshot Canadian stocks fell for the fourth straight session, hurt by persistent weaknessin heavyweight energy and financial shares. The S&P/TSX Composite indexadded to Wednesday's 260-point drop, sliding another 59.07 points, or 0.5%,to 12363.05. Declines led advances 864 to 796, preliminary data showed. Theblue-chip S&P/TSX 60 fell 4.44 points, or
Name (last): (first): Chem 233: Organic Chemistry I Dr. Marc Anderson Student ID#: Exam 1 // Spring 2014 // practice Points Total [1] your exam must be in pencil ! [2] ear plugs are encouraged, but headphones are forbidden [3] a non-graphing calculator and organic model kits are allowed allowed ; [4] Cell phone calculators are always forbidden ! [5]