Rime e ritmi

Edizione di riferimento:a cura di Luigi Banfi, Mursia, Milano 1987 Alla signorina Maria A. 1Nel chiostro del Santo 2Jaufré Rudel 3In una villa 4Piemonte 6Ad Annie 12A C. C. 13Bicocca di San Giacomo 14La guerra 20Nicola Pisano 23Cadore 26Carlo Goldoni 33A Scandiano 36Alla figlia di Francesco Crispi 37Alla città di Ferrara 39Mezzogiorno alpino 46L’ostessa di Gaby 47Esequie della guida E. R. 48La moglie del Gigante 50Per il monumento di Dante a Trento 52La mietitura del Turco 54La chiesa di Polenta 55Sabato Santo 60In riva al Lys 61Elegia del Monte Spluga 62Sant’Abbondio 64Alle Valchirie 65Presso una Certosa 67Congedo 68 Quando malinconiaBatte del cor la porta.
Sí come fiocchi di fumo candidotenui sfilando passan le nuvolesu l’aëree cupole, sovrale fantastiche torri del Santo; passan pe l’ cielo turchino, limpido,fresco di pioggia recente; sonitodi mondo lontano par l’ecotra le arcate che abbraccian le tombe.
Tal su l’audacie de gli anni giovania me poeta passâro i cantici,ed ora ne l’animo chiusosolitaria ne mormora l’eco.
Sí come nubi, sí come canticifuggon l’etadi brevi de gli uomini:dinanzi da gli occhi smarriti,ombra informe, che vuol l’infinito? Dal Libano trema e rosseggiaSu ’l mare la fresca mattina:Da Cipri avanzando veleggiaLa nave crociata latina.
A poppa di febbre anelanteSta il prence di Blaia, Rudello,E cerca co ’l guardo natanteDi Tripoli in alto il castello.
In vista a la spiaggia asïanaRisuona la nota canzone:«Amore di terra lontana,Per voi tutto il core mi duol.» Il volo d’un grigio alcïoneProsegue la dolce querela,E sovra la candida velaS’affligge di nuvoli il sol.
La nave ammaina, posandoNel placido porto. DiscendeSoletto e pensoso Bertrando,La via per al colle egli prende.
Velata di funebre bendaLo scudo di Blaia ha con sé:Affretta al castel: – MelisendaContessa di Tripoli ov’è? Io vengo messaggio d’amore,Io vengo messaggio di morte:Messaggio vengo io del signoreDi Blaia, Giaufredo Rudel.
V’amò vi cantò non veduta:Ei viene e si muor. Vi saluta,Signora, il poeta fedel. – La dama guardò lo scudieroA lungo, pensosa in sembianti:Poi surse, adombrò d’un vel neroLa faccia con gli occhi stellanti: – Scudier, – disse rapida – andiamo.
Ov’è che Giaufredo si muore?Il primo al fedele richiamoE l’ultimo motto d’amore. – Giacea sotto un bel padiglioneGiaufredo al conspetto del mare:In nota gentil di canzoneLevava il supremo desir.
– Signor che volesti crearePer me questo amore lontano,Deh fa cha a la dolce sua manoCommetta l’estremo respir! – Intanto co ’l fido BertrandoVeniva la donna invocata;E l’ultima nota ascoltandoPietosa risté su l’entrata: Ma presto, con mano tremanteIl velo gittando, scoprìLa faccia; ed al misero amante– Giaufredo, – ella disse – son qui. – Voltossi, levossi co ’l pettoSu i folti tappeti il signore,E fiso al bellissimo aspettoCon lungo sospiro guardò.
Pensando promisemi un giorno?È questa la fronte ove intornoIl vago mio sogno volò? – Sí come a la notte di maggioLa luna da i nuvoli fuoraDiffonde il suo candido raggioSu ’l mondo che vegeta e odora, Tal quella serena bellezzaApparve al rapito amatore,Un’altra divina dolcezzaStillando al morente nel cuore.
– Contessa, che è mai la vita?È l’ombra d’un sogno fuggente.
La favola breve è finita,Il vero immortale è l’amor.
Aprite le braccia al dolente.
Vi aspetto al novissimo bando.
Ed or, Melisenda, accomandoA un bacio lo spirto che muor. – La donna su ’l pallido amanteChinossi recandolo al seno,Tre volte la bocca tremanteCo ’l bacio d’amore baciò, E il sole da ’l cielo serenoCalando ridente ne l’ondaL’effusa di lei chioma biondaSu ’l morto poeta irraggiò.
O tra i placidi olivi, tra i cedri e le palme sedente bella Arenzano al riso de la ligure piaggia; operosa vecchiezza t’illustra, serena t’adorna signoril grazia e il dolce di giovinezza lume; facil corre in te l’ora tra liete aspettanze e ricordi calmi, sí come l’aura tra la collina e il mare.
Su le dentate scintillanti vettesalta il camoscio, tuona la valangada’ ghiacci immani rotolando per le ma da i silenzi de l’effuso azzurroesce nel sole l’aquila, e distendein tarde ruote digradanti il nero Salve, Piemonte! A te con melodiamesta da lungi risonante, comegli epici canti del tuo popol bravo, Scendon pieni, rapidi, gagliardi,come i tuoi cento battaglioni, e a vallecercan le deste a ragionar di gloria la vecchia Aosta di cesaree muraammantellata, che nel varco alpinoèleva sopra i barbari manieri Ivrea la bella che le rosse torrispecchia sognando a la cerulea Doranel largo seno, fosca intorno è l’ombra Biella tra ’l monte e il verdeggiar de’ pianilieta guardante l’ubere convalle, ch’armi ed aratri e a l’opera fumanti Cuneo possente e pazïente, e al vagodeclivio il dolce Mondoví ridente,e l’esultante di castella e vigne e da Superga nel festante corode le grandi Alpi la regal Torinoincoronata di vittoria, ed Asti Fiere di strage gotica e de l’iradi Federico, dal sonante fiumeella, o Piemonte, ti donava il carme Venne quel grande, come il grande augelloond’ebbe nome; e a l’umile paesesopra volando, fulvo, irrequïeto, egli gridava a’ dissueti orecchi,a i pigri cuori, a gli animi giacenti:– Italia, Italia – rispondeano l’urne e sotto il volo scricchiolaron l’ossasé ricercanti lungo il cimiterode la fatal penisola a vestirsi – Italia, Italia! – E il popolo de’ mortisurse cantando a chiedere la guerra; trasse la spada. Oh anno de’ portenti,oh primavera de la patria, oh giorni,ultimi giorni del fiorente maggio, suon de la prima italica vittoriache mi percosse il cuor fanciullo! Ond’iovate d’Italia a la stagion piú bella, oggi ti canto, o re de’ miei verd’anni,re per tant’anni bestemmiato e pianto,che via passasti con la spada in pugno al cristian petto, italo Amleto. Sottoil ferro e il fuoco del Piemonte, sottodi Cuneo ’l nerbo e l’impeto d’Aosta Languido il tuon de l’ultimo cannonedietro la fuga austriaca moría:il re a cavallo discendeva contra a gli accorrenti cavalieri in mezzo,di fumo e polve e di vittoria allegri,trasse, ed, un foglio dispiegato, disse Oh qual da i petti, memori de gli avi,alte ondeggiando le sabaude insegne, Arse di gloria, rossa nel tramonto,l’ampia distesa del lombardo piano;palpitò il lago di Virgilio, come che s’apre al bacio del promesso amore:pallido, dritto su l’arcione, immoto,gli occhi fissava il re: vedeva l’ombra E lo aspettava la brumal Novarae a’ tristi errori mèta ultima Oporto.
Oh sola e cheta in mezzo de’ castagni che in faccia il grande Atlantico sonantea i lati ha il fiume fresco di camelie,e albergò ne la indifferente calma Sfaceasi; e nel crepuscolo de i sensitra le due vite al re davanti corseuna miranda visïon: di Nizza biondo che dal Gianicolo spronavacontro l’oltraggio gallico: d’intornosplendeagli, fiamma di piropo al sole, Su gli occhi spenti scese al re una stilla,lenta errò l’ombra d’un sorriso. Allora venne da l’alto un vol di spirti, e cinse Innanzi a tutti, o nobile Piemonte,quei che a Sfacteria dorme e in Alessandriadiè a l’aure primo il tricolor, Santorre E tutti insieme a Dio scortaron l’almadi Carl’Alberto. – Eccoti il re, Signore,che ne disperse, il re che ne percosse.
anch’egli è morto, come noi morimmo,Dio, per l’Italia. Rendine la patria.
A i morti, a i vivi, pe ’l fumante sangue per il dolore che le regge agguagliaa le capanne, per la gloria, Dio,che fu ne gli anni, pe ’l martirio, Dio, a quella polve eroica fremente,a quella luce angelica esultante,rendi la patria, Dio; rendi l’Italia Batto a la chiusa imposta con un ramicello di fiori glauchi ed azzurri, come i tuoi occhi, o Annie.
Vedi: il sole co ’l riso d’un tremulo raggio ha baciato la nube, e ha detto – Nuvola bianca, t’apri.
Senti: il vento de l’alpe con fresco susurro saluta la vela, e dice – Candida vela, vai.
Mira: l’augel discende da l’umido cielo su ’l pésco in fiore, e trilla – Vermiglia pianta, odora.
Scende da’ miei pensieri l’eterna dea poesia su ’l cuore, e grida – O vecchio cuore, batti.
E docile il cuore ne’ tuoi grandi occhi di fata s’affisa, e chiama – Dolce fanciulla, canta.
Carlo, su ’l risonante adrïaco lidoA te viensene Aroldo il bel cantore;Non quale ei drappeggiò con riso infidoNel mantello di pari il suo dolore, Ma quel raggiante di fatal valoreSurse d’un popol combattente al gridoQuando pensò raddur d’Alceo co ’l cuoreL’aquila d’Alessandro al greco nido.
Quanti su quella bianca anglica fronteSogni passâr di gloria! Da l’EgeoSorridevan le sparse isole belle.
Ahi la Parca volò! Di monte in montePianse la lira de l’antico OrfeoE tramontaro in buio mar le stelle.
Ecco il ridotto. Ancor non ha l’aratroraso dal suolo l’opera di guerra.
Ecco le linee del tonante vallo Contra il nemico brulicante al pianoe lampeggiante da le valli in facciaqui puntò Colli rapido mirando Ecco le offese del nemico bronzone la chiesetta, già sonante in corod’umili donne al vespero d’aprile Dimani, Italia, passeran da l’Alpiprodi seimili in faccia al re levandol’armi e i ridenti in giovine baldanza Voi non vedrete, voi non sentirete,prodi sepolti in queste verdi zolle,quando tra questi clivi ruinava che Filiberto dirizzò, che sciolsecome polledra a l’aure annitrïentevia per l’Europa al corso il cuor di Carlo Nobil teatro a l’inclita ruinaquesto d’intorno. Sopra monti e valli passa l’istoria, operatrice eterna,tela tessendo di sventure e glorie;uman pensiero a’ novi casi audace E tuttavia silenzïosa fatinovi aggroppando ne la trama anticatesse e ritesse l’ardua tessitrice Rapida va de’ secoli la spola.
Addio, tra i sparsi Liguri romanotermine Ceva e nuova d’Aleramo Oh, pria ch’Alasia al giovine lombardogli occhi volgesse innamoratamenteceruli e a lui sciogliesse de la chioma povera vita e ricco amor chiedendoa la spelonca d’Àrdena, lasciatelungi le selve di Germania e il padre là da quel varco, onde sfidando vibral’esile torre il Castellino, urlandoarabe torme dilagâr fin dove Sotto il falcato vol de le fischiantial sol di maggio scimitarre azzurre tendono in vano a l’are di MariaVergin le mani, pallide, discinte,via trascinate pe’ capelli a’ molti Ma s’apre a i venti su per le castellavigili lungo le selvose Langhela fida a Cristo e Cesare balzana Nata d’amore e di valor cresciuta,gente di pugne e di canzoni amica,di lance e scudi infranti alta sonando deh come sparve luminosa, il cieloconsparso intorno di vermiglie stelle,imperïal meteora d’Italia Dietro le vien co ’l Po, con la sua biancacroce, con gli anni, pur di villa in villa,dritta, secura, riguardando innanzi, Tra ciglia e ciglia sotto le visierebalena il raggio del latin consiglio.
Quaranta duci; e l’aquila de l’Alpe Oh piú che ’l Po gli aspetta, oh piú che il sertodi Berengario! A lor servon gli eventi Chi è che cade e pare ascendere ombralà da le Langhe nuvolose? O grigiain mezzo a le due Bormide Cosseria, Su le ruine del castello avito,ultimo arnese or di riparo a i vintidel re, tre giorni, senza vitto, senza contro al valor repubblicano in cerchiobattente a fiotti di rovente bronzo,supremo fior de l’alber d’Aleramo, Su le ruine del castello avito,giovine, bello, pallido, senz’ira,ei maneggiava sopra i salïenti Scesero al morto cavaliere intornoda l’erme torri nel ceruleo vesprol’ombre de gli avi; ma non il compianto ruppe i silenzi de la valle, un giornotutta sonante di liuti e gighedietro i canori peregrin dal colle Altri messaggi ed altri messaggerimanda or la Francia. Ride su l’eterne Di balza in balza, angel di guerra, volala marsigliese. Svegliansi al galoppode’ cavalieri d’Augereau gli ossami E Bonaparte dice a’ suoi, da MonteZemolo uscendo al Tanaro sonante– Soldati, Annibal superò quest’Alpi, Di greppo in greppo su ’l cavallo biancosaetta il còrso. Spiovongli le chiomein doppia lista nere per l’adusto e neri gli occhi scintillando immotifóran dal fondo del pensier le cose.
Accenna. E come fulmine Massena ove Corsaglia al Tanaro si sposadal mezzo fiede Serurier, sinistrobatte Augereau. Gloria a’ tuoi forti, o ponte Avanza sotto il tricolor vessillol’egualitade, avanzano i plebeiduci che il sacro feudale impero Ma qui si pugna per l’onor, si muorequi per la patria. E ben risorge e vince Reca, Albertina, pur di guardia in guardiail parvoletto Carignano. In luitócca la madre Rivoluzïone l’ultimo capo dal vittorïosoramo di Carlo Emmanuele. Il sertogitta oltre Po Vittorio, e dittatore E a te dimani, Umberto re, in conspettol’Alpi d’Italia schierano gli armatifigli a la guerra. Il popolo fidente Noi non vogliamo, o Re, predar le bellerive straniere e spingere vagantel’aquila nostra a gli ampi voli avvezza: l’Alpe minacci e su’ due mari tuoni,alto, o fratelli, i cuori! alto le insegnee le memorie! avanti, avanti, o Italia Cantano i miti – Fuse Prometeonel primigenio fango animandolola forza d’insano leone:l’uomo levandosi ruggí guerra.
Dal rosso Adamo crebbe a l’esilioil lavorante primo: soverchiogli parve nel mondo un fratello:truce rise su ’l percosso Abele.
Quindi gorgoglia sangue ne i secolila faticosa storia de gli uomini,dal Pàrthenon grande a la tuacasa candida, Vashingtòno.
Su l’orso a terra steso rizzandosiil troglodita brandí ne l’aerela clava, da i muscoli al cuorefervere sentendo la battaglia.
I feri figli giocando al vesperonel sol rossastro luccicar viderotra i massi cruenti la selce,e l’acuirono per la strage.
Poi de le cose di fuor le imaginicalde riflesse nel mental fosforoper mezzo l’april vaporanteebri rapïangli, barcollando, da i palafitti laghi, da i fumidiantri scavati. Ahi, verzicarono le biade, pria magre su ’l colle,nel lavacro de le vene umane.
Dal superato colle i superstitiguardâro: i fiumi vasti, l’oceanomoltisono, le caligantialpi percossero di stupore i petti aneli verso il dominio,le menti accese del vago incognito.
Il pin fu gettato su l’onde,da i cerchi di pietre in vetta al monte tornâro i foschi dèi de le patrie,da i chiusi ostelli le donne risero:e quindi la guerra perenne,cavalla indomita, corse il mondo.
Pria che ’l falcato ferro de l’araboprofeta il culto suada a i popolide l’unico Allah solitario,e intorno al sepolcro scoverchiato del crocifisso ribelle a Ieovaarda il duello grave ne’ secolitra l’Asia e l’Europa, onde fulsea gli ozi barbari luce e vita; oh ben pria manda l’aurea Persepoligli adoratori del fuoco a gl’idolicontro, onde sonò Maratoneinclita storïa ne le genti, e Zeus su ’l trono de gli Achemenidi,nume pelasgo d’Omero e Fidia, ascese co ’l bello Alessandro,ed Aristotele meditava.
Dal Flavio Autari che il longobardicodestriero e l’asta spinge nel Ioniosereno ridentegli dopolungo errare armato, al venturiere che uscito a vista del Grande Oceanocavalca l’onde nuove terribiliarmato di spada e di scudope ’l regio imperïo de la Spagna, una fatale sublime insaniaper i deserti, verso gli oceani,trae gli uomini l’un contro l’altroco’ numi, co ’l mistico avvenire, con la scïenza. Su le Piramidiil Bonaparte quaranta secoliben chiama. Colà dove mummiedormono inutili Faraoni, al musulmano solenne, al tacitofellah curvato, tra sfere e circoli,ei parla i diritti de l’uomo:ondeggiano in alto i tre colori.
Oh, tra le mura che il fratricidiocementò eterne, pace è vocabolomal certo. Dal sangue la Pacesolleva candida l’ali. Quando? Al sorriso d’april che da la tardaVetrata rompe e illumina la messaPar che di greca leggiadria riardaIl marmo funeral de la contessa.
Su la divota gente al suol dimessaLa voce va de l’organo gagliarda,E sorge e tuona e mormora compressa,E il sol dardeggia. E Nicolò riguarda.
Per la dischiusa porta la marinaVedesi lungi tremolare, inviaOdori il vento, l’infiorato china Mandorlo i rami. E tra la litaniaChe invoca e prega, in umiltà divinaDa la gloria di Fedra esce Maria.
È la chiamata de le afflitte gentiSotto le spade barbare ne’ pianti,L’aspettata da i popoli redentiNe i segni a la vittoria sventolanti.
Verni semiti, e i petali rorantiDi lacrimosa pietra apre a i portentiTrasfigurato ne gli elleni incanti.
Oh di che mira passïon percossaStiè l’alma a lo scultor, quando montareDal greco avello de le tedesche ossa, Benigna visïon che tutto ammaliaIl ciel d’intorno, ei vide su l’altareLa nova e santa Venere d’Italia! E da le spalle d’Ampelo a l’altareTraversando fu visto DïonisioMaestoso ne l’atto con un risoDi gioia spirital pontificare.
E da le forme di beltà preclareIl verginal Ippolito divisoEcco i pulpiti sale, e dritto e fisoDi sereno vigor simbolo appare.
Poi, quando il coro delle donne a l’oreDel vespro in alto i canti e gli occhi ergeaDe gl’incensi tra il morbido vapore, Col vampeggiar de la mistica ideaNe i seni a le feconde itale nuoreL’eroica bellezza discendea.
Da la foce de l’Arno e de le spenteCittà d’Etruria da le sedi or lieteDi primavera, al vento d’orïente,Navi di Pisa, sciogliete, sciogliete.
Come stuolo di cigni in onde cheteAvanti Febo suo signor movente,Bianche l’azzurro Egeo soavemente,Navi di Pisa, correte, correte.
Vien dal verde paese di CibeleD’etesie mormoranti aure un confortoChe fuga dietro sé tempo crudele; E spirito novel di porto in portoAleggia e canta da le vostre vele– O terra, o ciel, o mar, Pan è risorto –.
Sei grande. Eterno co ’l sole l’iridede’ tuoi colori consola gli uomini,sorride natura a l’ideagiovin perpetüa ne le tue forme. Al baleno di quei fantasimiroseo passante su ’l torvo secoloposava il tumulto del ferro,ne l’alto guardavano le genti; e quei che Roma corse e l’Italia,struggitor freddo, fiammingo cesare,sé stesso oblïava, i pennellichino a raccogliere dal tuo piede.
Di’: sotto il peso de’ marmi austriaci,in quel de’ Frari grigio silenzio,antico tu dormi? o diffusaanima erri tra i paterni monti, qui dove il cielo te, fronte olimpiacui d’alma vita ghirlandò un secolo,il ciel tra le candide nubilimpido cerulo bacia e ride? Sei grande. E pure là da quel poveromarmo piú forte mi chiama e i cantici antichi mi chiede quel baldoviso di giovine disfidante.
Che è che sfidi, divino giovane?la pugna, il fato, l’irrompente impetodei mille contr’uno disfidi,anima eroica, Pietro Calvi.
Deh, fin che Piave pe’ verdi baratrine la perenne fuga de’ secolidivalli a percuotere l’Adriaco’ ruderi de le nere selve, che pini al vecchio San Marco diederoturriti in guerra giú tra l’Echinadi,e il sole calante le aguglietinga a le pallide dolomiti sí che di rosa nel cheto vesperole Marmarole care al Vecelliorifulgan, palagio di sogni,eliso di spiriti e di fate, sempre, deh, sempre suoni terribilene i desideri da le memorie,o Calvi, il tuo nome; e balzandopallidi i giovini cerchin l’arme.
Non te, Cadore, io canto su l’arcade avena che segua te con l’eroico verso che segua il tuon de’ fucili Oh due di maggio, quando, saltato su ’l limite de la il capitano Calvi – fischiavan le palle d’intorno – leva in punta a la spada, pur fiso al nemico mirando, e un fazzoletto rosso, segnale di guerra e sterminio, Pelmo a l’atto e Antelao da’ bianchi nuvoli il capo come vecchi giganti che l’elmo chiomato scotendo Come scudi d’eroi che splendon nel canto de’ vati raggianti nel candore, di contro al sol che pe ’l cielo Sol de le antiche glorie, con quanto ardore tu abbracci tu fra le zolle sotto le nere boscaglie d’abeti – Nati su l’ossa nostre, ferite, figliuoli, ferite da’ nevai che di sangue tingemmo crosciate, macigni, Tale da monte a monte rimbomba la voce de’ morti e via di villa in villa con fremito ogn’ora crescente Afferran l’armi e a festa i giovani tizïaneschi stanno le donne a’ neri veroni di legno fioriti Pieve che allegra siede tra’ colli arridenti e del Piave Auronzo bella al piano stendentesi lunga tra l’acque e Lorenzago aprica tra i campi declivi che d’alto e di borgate sparso nascose tra i pini e gli abeti ed altre ville ed altre fra pascoli e selve ridenti fucili impugnan, lance brandiscono e roncole: i corni Di tra gli altari viene l’antica bandiera che a Valle e accoglie i prodi: al nuovo sol rugge e a’ pericoli novi Udite. Un suon lontano discende, approssima, sale, un suon che piange e chiama, che grida, che prega, Che è? chiede il nemico venendo a l’abboccamento, – Le campane del popol d’Italïa sono: a la morte Ahi, Pietro Calvi, al piano te poi fra sett’anni la morteda le fosse di Mantova rapirà. Tu venisti cercandola, come a la sposa Quale già d’Austria l’armi, tal d’Austria la forca or ei grato a l’ostil giudicio che milite il mandi a la sacra Non mai piú nobil alma, non mai sprigionando lanciasti Belfiore, oscura fossa d’austriache forche, fulgente, Oh a chi d’Italia nato mai caggia dal core il tuo nome tal che il ributti a calci da i lari aviti nel fango e a chi la patria nega, nel cuor, nel cervello, nel sangue di suicidio, e da la bocca laida bestemmiatrice A te ritorna, sí come l’aquilanel reluttante dragon sbramatasi poggiando su l’ali pacatea l’aereo nido torna e al sole, a te ritorna, Cadore, il canticosacro a la patria. Lento nel pallidocandor de la giovine lunastendesi il murmure de gli albeti da te, carezza lunga su ’l magicosonno de l’acque. Di biondi parvolifioriscono a te le contrade,e da le pendenti rupi il fieno falcian cantando le fiere verginiattorte in nere bende la fulvidachioma; sfavillan di lampiceruli rapidi gli occhi: mentre il carrettiere per le precipitivie tre cavalli regge ad un caricodi pino da lungi odorante,e al cídolo ferve Perarolo, e tra le nebbie fumanti a’ verticituona la caccia: cade il camoscioa’ colpi sicuri, e il nemico,quando la patria chiama, cade.
Io vo’ rapirti, Cadore, l’animadi Pietro Calvi; per la penisolaio voglio su l’ali del cantoaralda mandarla. – Ahi mal ridesta, ahi non son l’Alpi guancial propizioa sonni e sogni perfidi, adulteri! lèvati, finí la gazzarra:lèvati, il marzïo gallo canta! – Quando su l’Alpi risalga Marioe guardi al doppio mare Duilioplacato, verremo, o Cadore,l’anima a chiederti del Vecellio.
Nel Campidoglio di spoglie fulgido,nel Campidoglio di leggi splendido,ei pinga il trionfo d’Italia,assunta novella tra le genti.
A te, porgente su l’argenteo SileLe braccia a l’avo da l’opima cuna,Ne la festante ilarità senileParve la vita accorrere con una Marïonetta in mano. Al sol d’aprileTe fuggente la logica importunaPresago accolse il comico navileVeleggiando la tacita laguna.
E Florindi e Lindori e PantaloniFûr la famiglia tua: d’entro i suoi scialliRosaura ti dicea – Bon dí, putelo –.
Fumavan su la tolda i maccheroni,Su l’albero le scimmie e i pappagalliGarrían. Su l’Adria ridea grande il cielo.
Fortuna e vita girano il lor varioStil. Quando Marte del suo ferreo stampoItalia offusca e al tuon de’ bronzi e al lampoFa di battaglia le città scenario, Tu, da le mani del ladron sicarioTragedo uscendo con sereno scampo,Conduci a mendicar di campo in campoL’eroica cecità di Belisario.
Oh errante con la moglie entro gli oscuriGuadi e i passi dubbiosi ed i tremantiPerigli de la notte, ecco il mattino! Dal mondo de la luna ecco ArlecchinoAl brigadier di Spagna, e in note e cantiMaria Teresa a gli Ussari e a’ Panduri.
Ecco, e tra i palchi onde l’oligarchiaSputa in platea, Venezia, ecco da questoPovero allegro venturier modestoA te la scena popolar si cria.
La commedia de l’arte si dormiaEbra vecchiarda; ed ei con un suo gestoLe spiccò su dal fianco disonestoLa giovinetta verità giulía.
Poi tra i Baffi accosciati ne’ bordelliEd i Farsetti lividi di leggíoDa le gondole trasse e da’ campielli La sanità plebea. Tutto vaníoCome uno stormo di migranti augelliSenza gloria né pan. Venezia, addio! Deh come grige pesano le brumeSu Lutezia che il verno discolora,Mentre ancor de l’ottobre al dolce lumeRide San Marco ed il Canal s’indora! Ed ei pur di su ’l memore volumeAl suo passato risorride ancora,E la vita e la scena ed il costumeDi cordïal giocondità rinfiora.
Ahi, la tragedia, orribil visïone,Al gran comico autor chiude l’etate!Cadde: e Venezia non vide finire Piagnucolando comme donna Cate,E di palagio, come PantaloneDal reo Lelio cacciato, il doge uscire.
De la pronta stagion ne i dí piú tardiChe le rose sfioriro e i laüreti,Quando cavalleria cinge i codardiE al valor civiltà mette divieti, A te, Scandian, faro gentil che ardiNe l’immensa al pensiero epica Teti,O rocca de’ Fogliani e de’ Boiardi,Terra di sapïenti e di poeti, Io vengo: a tergo mi lasciai la gramaChe il mondo dice poesia, lasciaiI deliri a cui par che dietro agogni L’età malata. Io sento che mi chiamaDe’ secoli la voce, e risognaiLa verità dei grandi antichi sogni.
Ma non sotto la stridulaProcella d’onte che non fûr piú mai,Ma non, sicana vergine,Tu la splendida fronte abbasserai.
Pria che su rosea tracciaAmor ti chiami, innalza, o bella figlia,Innalza al padre in facciaGli occhi sereni e le stellanti ciglia.
Ei nel dolce monileDe le tue braccia al bianco capo intornoScordi il momento vileE de la patria il tenebroso giorno.
Ne l’amoroso e pio folgoreggiareDe gli occhi il lui levatiL’ampio riso rivegga ei del suo mareNe’ dí pieni di fati; Quando, novello Procida,E piú vero e migliore, innanzi e indietroArava ei l’onda sicula:Silenzio intorno, a lui su ’l capo il tetro De le borbonie scuriBalenar ne i crepuscoli fiammanti;In cuore i dí futuri,Garibaldi e l’Italia: avanti, avanti! O isola del sole,O isola d’eroi madre, Sicilia,Fausta accogli la proleDi lui che la tirannica vigilia T’accorciò. Seco venga a’ lidi tuoiFe’ d’opre alte e leggiadre,O isola del sole, o tu d’eroiSicilia antica madre.
Ferrara, su le strade che Ercole primo lanciava ad incontrar le Muse pellegrine arrivanti, e allinearon elle gli emuli viali d’ottave come, o Ferrara, bello ne la splendida ora d’aprile Non passo i luminosi misteri vïola né voce d’uomo: da i suburbani pioppi il tripudio corre de gli uccelli su l’aura del pian lungi florido. Come ne le scendenti spire de la conchiglia un’eco d’antichi pianti, un suono di lungo sospiro profondo dal grande oceano ond’ella strappata fu, permane; 12 cosí per le tue piazze dilette dal sole, o Ferrara, il nuovo peregrino tende le orecchie e ode da’ marmorei palagi su ’l Po discendere lenta processïone e canto d’un fantastico epos.
Chi è, chi è che viene? Con piangere dolce di flauti, tra nuvola di cigni volanti da l’Eridano, ecco il Tasso. Lampeggia, palazzo spirtal de’ dïamanti, e tu, fatta ad accôrre sol poeti e duchesse, o porta de’ Sacrati, sorridi nel florido arco! d’Italia grande, antica, l’ultimo vate viene.
Ei fugge i colli dove monacale tedio il consunse, ei chiede i luoghi dove gioventú gli sorrise.
Castello d’Este, in vano d’arpie vaticane fedato, abbassa i ponti, leva l’aquila bianca. Ei torna.
Non Alfonso caduco gli mova a l’incontro, non mova ma Parisina ardente dal sangue natal di Francesca, che del vago Tristano legge gli amori e l’armi; ma, posando la destra su ’l fido levrier, Leonello verde vestito; parla di Cesare al Guarino.
O dileguanti via su la marinatra grigie arene e fise acque di stagni,cui scarsa omai la quercia ombreggia e rado terre pensose in torvo aëre greve,su cui perenne aleggia il mito e covaleggende e canta a i secoli querele, rovescio, il crin spiovendogli, dal solemal carreggiato (e candide tendeaal mareggiante Eridano le braccia) ardendo, come per sereno cielostella volante che di lume un solcotraesi dietro: chiamano, ed in alto Ov’è che prone su ’l fratel piangendol’Eliadi suore lacrimâr l’elettro,e crebber pioppe, sibilando a’ venti Ov’è che a lutto del fanciullo amatolai lungi il re de’ Liguri levandotra le populee meste fronde e l’ombra vecchiezza indusse di canute piume,e abbandonata la dogliosa terraseguí le belle sorridenti in cielo Perpetuo quindi un gemito vagavasu la tristezza di Padusa immotane le fósche acque. I Liguri selvaggi lungo ululando in negre vesti, o soprai calvi dossi a l’isole emergentiin solchi per il desolato lago lugubremente dove Argenta siedeoggi. Né ancora Dïomede aveadi delfic’oro e argivo onor vestita Spina pelasga. Ahi nome vano or suona!Sparí, del vespro visïone, in facciaa la sorgente con in man la croce Salve, Ferrara! Dove stan le belletorri d’Ateste e case d’Arïostieran paludi, e i Língoni coloni quando campati innanzi la ruinadel latrante Unno i Veneti e dal Fòro sí come i Liguri avi da le belvene le disperse stazïon lacustri,qui confuggiro e ripararon l’alto Salve, Ferrara, co ’l tuo fato in pugnoultima nata, creatura novade l’Apennin, del Po, del faticoso Poi che di sangue vínilo rinfusapugne cercando e libertà, trovastirisse e tiranni, a l’orïente – O bianca chiamasti. E venne. Ah ponte di Cassano,ah rive d’Adda, quanto grido corsel’aure lombarde, allor che su ’l furore ringuainando placido la spadaAzzo Novello salutò con manola sventolante rossa croce per le D’allora un lume d’epopea coronal’aquila d’Este; e quando ne le salele marchesane udian Isotta e i fieri un mesto suon di rapsodia venivagiú d’Aquileia dal disfatto piano, venía co ’l Po, cantatagli da’ flutti l’itala antica melodia di Maro;e le vïole de’ trovieri a un trattotacean; la dama sospirava, in alto E a te, Ferrara, come già d’alpestresostanza i fiumi ti recâr tributo,onde tu stesti nel gran piano e saldo a te da i monti a te da le collined’Italia verdi profluí l’ingegnoe la bollente d’igneo vigore A te gli Strozzi vennero da l’Arnotósco parlando e ti cantâr latina;e gli Arïosti da Bologna, accorta e di faccenda, che a stupor del mondodiêr la sirena del volubil tono;venne da Reggio la diletta a Febo e da gli Euganei vennero pensosiSavonaroli, e da Verona bella,la diva Grecia rivelando, umíle Onde stagione fu di gloria, e corsecon il tuo fiume, o fetontea Ferrara, Ahi ahi l’ora nefanda! Dal Tebro fiutando la preda la lupa vaticana s’abbatte su l’Eridano.
De la bocca agognante con l’atra mefite ella fuga turbato l’usignolo tra gli allori cantando.
D’Armida e di Rinaldo cantava: cantava Clorinda con l’elmo e l’auree trecce, ed Erminia soave.
Salgono su per l’aere dal canto le imagini: bionde vergini sospirose, che timide i ceruli sguardi giran, chinando il viso pallido di desio.
Tutte fuggîr le belle davanti a la lupa, che tetra digrigna i bianchi denti, mette ululati e avanza. 152 Tutti su’ grandi scudi velaro i guerrieri le croci, e dileguâr fantasmi per le insorte tenèbre.
La lupa, con un guizzo del rabido artiglio la bianca aquila ghermí al petto, la strazïò ne l’ale.
Maledetta sie tu, maledetta sempre, dovunque gentilezza fiorisce, nobiltade apre il volo, sii maledetta, o vecchia vaticana lupa cruenta, maledetta da Dante, maledetta pe ’l Tasso.
Tu lo spegnesti, tu; malata l’Italia traesti co ’l suo poeta a l’ombra perfida de’ cenobii.
Pallido, grigio, curvo, barcollante, al braccio il sostiene un alto prete rosso di porpora e salute.
O Garibaldi, vieni! L’espïazïone d’Italia con la virtú d’Italia su questo colle adduci.
Corra nobile sangue d’Arganti e Tancredi novelli risorti da Camillo per la Solima nostra.
Che Sant’Onofrio? È questa la vetta superba di Giano, fortezza de’ Quiriti, cuna santa d’Italia: onde io, Ferrara, madre de l’itale muse seconda, questo vindice canto su ’l nostro Po t’invio.
Nel gran cerchio de l’alpi, su ’l granitoSquallido e scialbo, su’ ghiacciai candenti,Regna sereno intenso ed infinitoNol suo grande silenzio il mezzodí.
Pini ed abeti senza aura di ventiSi drizzano nel sol che gli penetra,Sola garrisce in picciol suon di cetraL’acqua che tenue tra i sassi fluí.
E verde e fosca l’alpe e limpido e fresco è il mattino, e traverso gli abeti tremola d’oro il sole.
Cantan gli uccelli a prova, stormiscono le cascatelle, precipita la scesa nel vallone di Niel.
Ecco le bianche case. La giovine ostessa a la soglia ride, saluta e mesce lo scintillante vino.
Per le fórre de l’alpe trasvolan figure ch’io vidi certo nel sogno d’una canzon d’arme e d’amori. 8 Spezzato il pugno che vibrò l’audacePicca tra ghiaccio e ghiaccio, il domatoreDe la montagna ne la bara giace.
Giú da la Saxe in funeral tenoreScende e canta il corteo: dicono i preti– La requie eterna dona a lui, Signore –, – E la luce perpetua l’allieti –Rispondono le donne: ondeggia al ventoIl vessil de la morte in fra gli abeti.
Or sí or no su rotte aure il lamentoVien dal martorio, or sí or no si vedeScender tra’ boschi il coro grave e lento.
Esce in aperto, e al cimiter procede.
Posta la bara fra le croci, priaFavella il prete: – Iddio t’abbia marcede, Emilio, re della montagna: e piaAvei l’alma, e ogni dí le tue preghiereAscendevano al grembo di Maria –.
Le donne sotto le gramaglie nereCo ’l viso in terra piangono a una voltaSopra i figli caduti e da cadere.
A un tratto la caligine ravvoltaIntorno al Montebianco ecco si squagliaE purga nel sereno aere disciolta: Erto, aguzzo, feroce si protendeE, mentre il ciel di sua minaccia taglia, Il Dente del gigante al sol risplende.
Bianchi verni, estati ardenti,Quante mai pesâr su me!Trapassar maree di gentiVidi e nuvole di re.
Bella mia, dal fondo algosoDel mar nostro vieni su!In te vuole il suo riposoLa mia bronzea gioventú.
Dal confin che il sol rallegraQual mai voce risonò?Di quast’acque immense l’egraSolitudin lascerò.
O tu azzurro il crine e il dossoBel cavallo, a me, a me!Vo’ vedere il sole rossoE la faccia del mio re.
Il mio petto si confondeDi lassezza e di desir.
Bella mia, per le glauche ondeNon ti sento anche salir? Bella mia, quando in ciel dormeLa caligine lunar Ne la veglia de le formeCi vogliamo disposar.
Ahi, mio re! l’informe eternoDemogorgone non vuol,E la tenebra d’infernoMi sorprende in faccia al sol.
Ahi, mio re! la tua carezzaChiedo in van, son tratta giú;E fu in van la mia bellezzaCom’è in van la tua virtú.
Súbito scosso de le membra sueLo spirito volò: sovr’esso il mare,Oltre la terra, al sacro monte fue.
A traverso il baglior crepuscolareVide, o gli parve riveder, la portaDi san Pietro nel monte vaneggiare.
– Aprite – disse. – Coscïenza portaIl mio volere, e tra i superbi io vegno,Ben che la stanza mia qui sarà corta.
E passerò nel benedetto regnoA riveder le note forme sante,Ché Dio e il canto mio me ne fa degno –.
Voce da l’alto gli rispose – Dante,Ció che vedesti fu e non è: vaníoCon la tua visïon, mondo raggiante Ne gl’inni umani de la vostra Clio:Dal profondo universo unico regnaE solitario sopra i fati Dio.
Italia Dio in tua balía consegnaSí che tu vegli spirito su leiMentre perfezïon di tempi vegna.
Va’, batti, caccia tutti falsi dèi,Fin ch’egli seco ti richiami in altoA ciò che novo paradiso crei –.
Cosí di tempi e genti in vario assaltoDante si spazia da ben cinquecentoAnni de l’Alpi sul tremendo spalto.
Ed or s’è fermo, e par ch’aspetti, a Trento.
Atene, 14 giugno – I turchi incominciarono a mietere in Tessaglia e continuano a Il Turco miete. Eran le teste armeneChe ier cadean sotto il ricurvo acciar:Ei le offeriva boccheggianti e osceneA i pianti de l’Europa a imbalsamar.
Il Turco miete. In sangue la TessagliaCh’ei non arava or or gli biondeggiò:– Aia – diss’ei – m’è il campo di battaglia,E frustando i giaurri io trebbierò –.
Il Turco miete. E al morbido tirannoManda il fior de l’elleniche beltà.
I monarchi di Cristo assisterannoBianchi eunuchi a l’arèm del Padiscià.
Agile e solo vien di colle in collequasi accennando l’ardüo cipresso.
Forse Francesca temprò qui li ardenti Sta l’erta rupe, e non minaccia: in altoguarda, e ripensa, il barcaiol, torcendol’ala de’ remi in fretta dal notturno fuma il comignol del villan, che giallomesce frumento nel fervente ramelà dove torva l’aquila del vecchio Ombra d’un fiore è la beltà, su cuibianca farfalla poesia volteggia:eco di tromba che si perde a valle Fuga di tempi e barbari silenzivince e dal flutto de le cose emergesola, di luce a’ secoli affluenti Ecco la chiesa. E surse ella che ignotiservi morian tra le romana plebequei che fûr poscia i Polentani e Dante Forse qui Dante inginocchiossi? L’altafronte che Dio miró da presso chiusa e folgorante il sol rompea da’ vastiboschi su ’l mar. Del profugo a la menteospiti batton lucidi fantasmi mentre, dal giro de’ brevi archi l’alacandida schiusa verso l’orïente,giubila il salmo In exitu cantando Itala gente da le molte vite,dove che albeggi la tua notte e un’ombravagoli spersa de’ vecchi anni, vedi Ma su’ dischiusi tumuli per quellechiese prostesi in grigio sago i padri,sparsi di turpe cenere le chiome al bizantino crocefisso, atrocene gli occhi bianchi livida magrezza,chieser mercé de l’alta stirpe e de la Da i capitelli orride forme intrusea le memorie di scapelli argivi,sogni efferati e spasimi del bieco imbestïati degeneramentide l’orïente, al guizzo de la fioca lampada, in turpe abbracciamento attorti, goffi sputavan su la prosternatagregge: di dietro al battistero un fulvopicciol cornuto diavolo guardava Fuori stridea per monti e piani il vernode la barbarie. Rapido saettanero vascello, con i venti e un dio fuoco saetta ed il furor d’Odinosu le arridenti di due mari a specchiomoli e cittadi a Enosigeo le braccia Ahi, ahi! Procella d’ispide polledreàvare ed unne e cavalier tremendisfilano: dietro spigolando allegra Gesù, Gesù! Spalancano la terrabocca i sepolcri: a’ venti a’ nembi al solepiangono rese anch’esse de’ beati E quel che avanza il Vínilo barbuto,ridiscendendo da i castelli immuni,sparte – reliquie, cenere, deserto – Schiavi percossi e dispogliati, a voioggi la chiesa, patria, casa, tomba, E qui percossi e dispogliati anch’essii percussori e spogliatori un giornovengano. Come ne la spumeggiante ferve, e de’ colli italici la biancauva e la nera calpestata e frantasé disfacendo il forte e redolente qui, nel conspetto a Dio vendicatoree perdonante, vincitori e vinti,quei che al Signor pacificò, pregando, quei che Gregorio invidïava a’ serviceppi tonando nel tuo verbo, o Roma,memore forza e amor novo spiranti Salve, affacciata al tuo balcon di poggitra Bertinoro alto ridente e il dolcepian cui sovrasta fino al mar Cesena salve, chiesetta del mio canto! A questamadre vegliarda, o tu rinnovellataitala gente da le molte vite de la preghiera: la campana squilliammonitrice: il campanil risorto Ave Maria! Quando su l’aure correl’umil saluto, i piccioli mortaliscovrono il capo, curvano la fronte Una di flauti lenta melodiapassa invisibil fra la terra e il cielo:spiriti forse che furon, che sono Un oblio lene de la faticosavita, un pensoso sospirar quïete,una soave volontà di pianto Taccion le fiere e gli uomini e le cose,roseo ’l tramonto ne l’azzurro sfuma,mormoran gli alti vertici ondeggianti Che giovinezza nova, che lucidi giorni di gioia per la cerula effusa chiarità de l’aprile cantano le campane con onde e volate di suoni da la città su’ poggi lontanamente verdi! Da i superati inferni, redimito il crin di vittoria, candido, radïante, Cristo risorge al cielo: svolgesi da l’inverno il novello anno, e al suo fiore già in presagio la messe già la vendemmia ride.
Ospite nova al mondo, son oggi vent’anni, Maria, tu t’affacciasti; e i primi tuoi vagiti coverse doppio il suon de le sciolte campane sonanti a la gloria: ora e tu ne la gloria de l’età bella stai, stai com’uno di questi arboscelli schietti d’aprile che a l’aura dolce danno il bianco roseo fiore.
Volgasi intorno al capo tuo giovin, deh, l’augure suono de le campane anch’oggi di primavera e pasqua! 16 cacci il verno ed il freddo, cacci l’odio tristo e l’accidia, cacci tutte le forme de la discorde vita! A piè del monte la cui neve è rosaIn su ’l mattino candido e vermiglio,Lucida, fresca, lieve, armonïosaTraversa un’acqua ed ha nome dal giglio.
Io qui seggo, Ferrari, e la famosaRiva d’Arno ripenso e il tuo consiglio;E di por via la piccioletta prosaE altamente cantar partito piglio.
Ma il Lys m’avvisa – Al nulla si confondeQuesto mio canto, e non se ne rammarca;Pur di tanto maggior vena s’effonde –.
Ond’io, la fronte di superbia scarca,Torno al mio cuore; e a’ monti a l’aure a l’ondeRidico la canzon del tuo Petrarca.
No, forme non eran d’aer colorato né piante garrule e mosse al vento: ninfe eran tutte e dee.
E quale iva salendo volubile e cerula come velata emerse Teti da l’Egeo grande a Giove: e qual balzava da la palpitante scorza de’ pini rosea, l’agil donando florida chioma a l’aure: e qual da la cintura d’in cima a’ ghiacci dïasprati sciogliea, nastri d’argento, le cascatelle allegre.
Sola in vett’a un gran masso di quarzo brillante al solcavi l’aurea chioma con l’aureo pettine, lunga la chioma iva per l’alpe, vi ridea dentro il sole.
In un tempio a larghe ombre di larici acuti le Fate stavan, occhi fiammanti ne la gemma de’ visi: serti di quercia al crine su le nere clamidi nero, scettri avean d’oro in mano: riguardavano me.
– Orco umano, che sali da’ piani fumanti di tedio, noi la ti demmo: aveva gli occhi color del mare.
Or tu ne vieni solo. Che festi di nostra sorella? l’hai divorata? – E fise riguardavan pur me.
– No, temibili Fate, no, soavi ninfe, lo giuro: ella è volata fuori de la veduta mia.
Ma la sua forma vive, ma palpita l’alma sua vita ne le mie vene, in cima de la mia mente siede.
Con la imagine sua dinanzi da gli occhi tuttora che mi arde, con la voce che dentro il cor mi ammalia, suono di primavera su ’l tepido aprile dormente, erro soletto il mondo, tutto di lei l’impronto.
Ecco, voi Fate e ninfe, paretemi, e siete, lei sola: anzi in mia visïone v’ho creato io di lei.
Ma ella dove esiste? – Lamenti scoppiarono, e via sparver le ninfe in aria, via sotterra le Fate.
E vidi su gli abeti danzar li scoiattoli, e udii sprigionate co’ musi le marmotte fischiare.
E mi trovai soletta là dove perdevasi un piano brullo tra calve rupi: quasi un anfiteatro ove elementi un giorno lottarono e secoli. Or tace tutto: da’ pigri stagni pigro si svolve un fiume: erran cavalli magri su le magre acque: aconito, perfido azzurro fiore, veste la grigia riva.
Nitido il cielo come in adamanteD’un lume del di là trasfuso fosse,Scintillan le nevate alpi in sembianteD’anime umane da l’amor percosse.
Sale da i casolari il fumo ondanteBianco e turchino fra le piante mosseDa lieve aura: il Madesimo cascantePassa tra gli smeraldi. In vesti rosse Traggono le alpigiane, Abbondio santo,A la tua festa: ed è mite e giocondoDi lor, del fiume e de gli abeti il canto.
Laggiú che ride de la valle in fondo?Pace, mio cuor; pace, mio cuore. Oh tantoBreve la vita ed è sí bello il mondo! Per i funerali di Elisabetta Imperatrice Regina Bionde Valchirie, a voi diletta sferzar de’ cavalli, sovra i nembi natando, l’erte criniere al cielo.
Via dal lutto uniforme, dal piangere lento de i cherchi rapite or voi, volanti, di Wittelsbach la donna.
Ahi quanto fato grava su l’alta tua casa crollante, su la tua bianca testa quanto dolore, Absburgo! Pace, o veglianti ne la caligin di Mantova e Arad ombre, ed o scarmigliati fantasimi di donne! Via, Valchirie, con voi la bionda qual voi di cavalli sotto Corcira bella l’azzurro Jonio sospira con suo ritmo pensoso verso gli aranci in fiore. 12 Sorge la bianca luna da’ monti d’Epiro ed allunga sino a Leuca la face tremolante su ’l mare.
Ivi l’aspetta Achille. Tergete, Valchirie, tergete dal nobil petto l’orma del pugnale villano; e tergete da l’alma, voi pie sanatrici divine, il sogno spaventoso, lugubre, de l’impero, Sveglisi ne’ freschi anni la pura vindelica rosa a un dolce accordo novo di tinnïenti cetre.
Qual piú soave mai, la musa di Heine risuona: che da l’erma risponde Leucade, sospirando? Tien la spirtale riva un’altra serena quïete come d’elisio sotto la graziosa luna.
Da quel verde, mestamente pertinace tra le foglieGialle e rosse de l’acacia, senza vento una si toglie:E con fremito leggeroPar che passi un’anima.
Velo argenteo par la nebbia su ’l ruscello che gorgoglia,Tra la nebbia ne ’l ruscello cade a perdersi la foglia.
Che sospira il cimitero,Da’ cipressi, fievole? Improvviso rompe il sole sopra l’umido mattino,Navigando tra le bianche nubi l’aere azzurrino:Si rallegra il bosco austeroGià de ’l verno prèsago.
A me, prima che l’inverno stringa pur l’anima miaIl tuo riso, o sacra luce, o divina poesia!Il tuo canto, o padre Omero,Pria che l’ombra avvolgami! Fior tricolore,Tramontano le stelle in mezzo al mare E si spengono i canti entro il mio core.
Sta Federico imperatore in Como.
Ed ecco un messaggero entra in MilanoDa Porta Nova a briglie abbandonate.
«Popolo di Milano,» ei passa e chiede,«Fatemi scorta al console Gherardo.» Il consolo era in mezzo de la piazza,E il messagger piegato in su l’arcioneParlò brevi parole e spronò via.
Allor fe’ cenno il console Gherardo,E squillaron le trombe a parlamento.
Squillarono le trombe a parlamento:Ché non anche risurto era il palagioSu’ gran pilastri, né l’arengo v’era,Né torre v’era, né a la torre in cimaLa campana. Fra i ruderi che neri Verdeggiavan di spine, fra le basseCase di legno, ne la breve piazzaI milanesi tenner parlamento Al sol di maggio. Da finestre e porteLe donne riguardavano e i fanciulli.
«Signori milanesi,» il consol dice,«La primavera in fior mena tedeschiPur come d’uso. Fanno pasqua i lurchiNe le lor tane, e poi calano a valle.
Per l’Engadina due scomunicati Arcivescovi trassero lo sforzo.
Trasse la bionda imperatrice al sireIl cuor fido e un esercito novello.
Como è co’ i forti, e abbandonò la lega.»Il popol grida: «L’esterminio a Como.» «Signori milanesi,» il consol dice,«L’imperator, fatto lo stuolo in Como,Move l’oste a raggiungere il marcheseDi Monferrato ed i pavesi. QualeVolete, milanesi? od aspettare Da l’argin novo riguardando in arme,O mandar messi a Cesare, o affrontareA lancia e spada il Barbarossa in campo?»«A lancia e spada,» tona il parlamento,«A lancia e spada, il Barbarossa, in campo.» Or si fa innanzi Alberto di Giussano.
Di ben tutta la spalla egli soverchiaGli accolti in piedi al console d’intorno.
Ne la gran possa de la sua persona.
Torreggia in mezzo al parlamento: ha in mano La barbuta: la bruna capellieraIl lato collo e l’ampie spalle inonda.
Batte il sol ne la chiara onesta faccia,Ne le chiome e ne gli occhi risfavilla.
È la sua voce come tuon di maggio.
«Milanesi, fratelli, popol mio!Vi sovvien» dice Alberto di Giussano«Calen di marzo? I consoli sparutiCavalcarono a Lodi, e con le spadeNude in mano gli giurâr l’obedïenza.
Cavalcammo trecento al quarto giorno,Ed a i piedi, baciando, gli ponemmoI nostri belli trentasei stendardi.
Mastro Guitelmo gli offerí le chiaviDi Milano affamata. E non fu nulla.» «Vi sovvien» dice Alberto di Giussano«Il dí sesto di marzo? Ai piedi ei volleTutti i fanti ed il popolo e le insegne.
Gli abitanti venian de le tre porte,Il carroccio venía parato a guerra; Gran tratta poi di popolo, e le crociTeneano in mano. Innanzi a lui le trombeDel carroccio mandâr gli ultimi squilli,Innanzi a lui l’antenna del carroccioInchinò il gonfalone. Ei toccò i lembi.» «Vi sovvien?» dice Alberto di Giussano:«Vestiti i sacchi de la penitenza,Co’ piedi scalzi, con le corde al collo,Sparsi i capi di cenere, nel fangoC’inginocchiammo, e tendevam le braccia, E chiamavam misericordia. TuttiLacrimavan, signori e cavalieri,A lui d’intorno. Ei, dritto, in piedi, pressoLo scudo imperïal, ci riguardava.
Muto, col suo dïamantino sguardo.» «Vi sovvien,» dice Alberto di Giussano,«Che tornando a l’obbrobrio la dimaneScorgemmo da la via l’imperatriceDa i cancelli a guardarci? E pe’ i cancelliNoi gittammo le croci a lei gridando – O bionda, o bella imperatrice, o fida,O pia, mercé, mercé di nostre donne! –Ella trassesi indietro. Egli c’impose Porte e muro atterrar de le due cinteTanto ch’ei con schierata oste passasse.» «Vi sovvien?» dice Alberto di Giussano:«Nove giorni aspettammo; e si partiroL’arcivescovo i conti e i valvassori.
Venne al decimo il bando – Uscite, o tristi,Con le donne co i figli e con le robe: Otto giorni vi dà l’imperatore –.
E noi corremmo urlando a Sant’Ambrogio,Ci abbracciammo a gli altari ed a i sepolcri.
Via da la chiesa, con le donne e i figli,Via ci cacciaron come can tignosi.» «Vi sovvien» dice Alberto di Giussano«La domenica triste de gli ulivi?Ahi passïon di Cristo e di Milano!Da i quattro Corpi santi ad una ad unaCrosciar vedemmo le trecento torri De la cerchia; ed al fin per la ruinaPolverosa ci apparvero le caseSpezzate, smozzicate, sgretolate:Parean file di scheltri in cimitero.
Di sotto, l’ossa ardean de’ nostri morti.» Cosí dicendo Alberto di GiussanoCon tutt’e due le man copriasi gli occhi,E singhiozzava: in mezzo al parlamentoSinghiozzava e piangea come un fanciullo.
Ed allora per tutto il parlamento Trascorse quasi un fremito di belve.
Da le porte le donne e da i veroni,Pallide, scarmigliate, con le bracciaTese e gli occhi sbarrati al parlamento,Urlavano – Uccidete il Barbarossa –.
«Or ecco,» dice Alberto di Giussano,«Ecco, io non piango piú. Venne il dí nostro,O milanesi, e vincere bisogna.
Ecco: io m’asciugo gli occhi, e a te guardando,O bel sole di Dio, fo sacramento: Diman la sera i nostri morti avrannoUna dolce novella in purgatorio:E la rechi pur io!» Ma il popol dice:«Fia meglio i messi imperïali.» Il soleRidea calando dietro il Resegone.

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