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Qualità della Vita nella ricerca e nella società
La ricerca sulla qualità della vita ha avuto un impulso notevole in campomedico soltanto quando si è diffusa la consapevolezza che, per valutare irisultati dei trattamenti in medicina, erano insufficienti gli abituali parametriclinici. Nella valutazione degli esiti, quindi, ci si è resi conto che i cambia-menti sintomatici, correlati alla malattia o al disturbo trattato, costituivanoper il soggetto in esame soltanto una parte, spesso non la più importante, delquadro generale delle sue condizioni di vita (Sibilia, 1995).
Ecco che si sono allora moltiplicati indicatori e misure di adattamento
socio-lavorativo e familiare, di benessere psico-fisico e lavorativo, di soddi-sfazione di vita e altri, che prima erano invece lasciati in ombra in quantonon degni di considerazione nella ricerca biomedica. Nelle patinate e colo-rate pagine pubblicitarie di ricerche sui farmaci offerte all’attenzione delmedico, queste misure sono quindi comparse accanto a quelle dei più tradi-zionali parametri bio-clinici.
Anche in epidemiologia, la scienza che usa dati più “duri” quali mortalità
e incidenza e prevalenza di malattie, accanto agli abituali parametri quanti-tativi usati si è cercato di affiancare misure che esprimessero la qualità deglianni di vita vissuti. La “speranza” di vita, il conteggio degli anni ragione-volmente attendibili, da dato puramente quantitativo qual era, è stato quindicorretto tenendo conto della qualità della vita realmente vissuta.
Questo cambiamento si può interpretare come l’effetto di una trasforma-
zione socio-culturale. Dagli anni ’70 in poi si è diffusa in strati sociali sem-pre più ampi una maggiore sensibilità a bisogni umani la cui soddisfazioneè stata sempre più avvertita come un diritto piuttosto che come un dono dellavita, della “Provvidenza” o della fortuna. Si tratta di bisogni che vanno oltrea quelli basilari, relativi cioè alle condizioni di una confortevole e dignitosasopravvivenza, come per esempio la sicurezza, la casa, o la salute.
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Si tratta di bisogni la cui legittimità già la Carta dei diritti dell’uomo fir-
mata a Parigi il 10 dicembre 1948 aveva sancito, e nel nostro Paese il decen-nio di lotte operaie e studentesche che va dal 1965 al ‘75 (indicato con il suoanno eponimo: il “sessantotto”) aveva posto all’ordine del giorno. Per esem-pio, una remunerazione equa e soddisfacente, il riposo e lo svago, un tenoredi vita sufficiente a garantire il benessere e la salute, l’accessibilità all’istru-zione superiore, la libera partecipazione alla vita della comunità nonché algodimento delle sue risorse. Le vittorie nelle battaglie per i “diritti civili”sancivano che le possibilità di una vita felice non dovessero essere limitateneanche dai vincoli posti da istituzioni millenarie come il matrimonio o daprincipi considerati intangibili come la “sacralità” della vita (intrauterina).
La vera novità scientifica, nel campo delle scienze della salute, possiamo
individuarla a mio avviso in due cambiamenti fondamentali. Anzitutto l’in-dividuo viene considerato per la prima volta un soggetto legittimato a giudi-care e misurare la soddisfazione di questi bisogni e delle sue condizioni divita in generale. Questionari e scale relativi a questi aspetti “soggettivi”, inanalogia alle scale di misura già usate in psichiatria, hanno quindi iniziato adavere cittadinanza scientifica accanto a misure ritenute più “oggettive”, qualile misure di derivazione strumentale.
In secondo luogo, l’ambiente di vita e delle relazioni sociali ha iniziato a
essere considerato un ambito che include fattori determinanti sia nella gene-si delle malattie, sia nel recupero, nel mantenimento o miglioramento dellasalute. Nello stesso periodo, per esempio, hanno iniziato a moltiplicarsi ediffondersi le ricerche sullo stress psicosociale, prima nei paesi anglosassonie poi in Italia. Lo stress, quindi, diventa un legittimo fattore di disturbo emalattia, indipendentemente e con pari dignità di noxa rispetto ai tradiziona-li fattori patogeni dell’ambiente fisico-chimico e biologico, tradizionalmen-te studiati nella medicina a impostazione naturalistica, quali il freddo, gliagenti tossici o i microrganismi patogeni.
Mentre dalle riviste scientifiche l’argomento stress si è rapidamente dif-
fuso nel pubblico, diventando poi parte della cultura corrente, il cambia-mento è arrivato invece a essere riconosciuto a livello istituzionale in modopiù lento. È soltanto negli anni ’90 che il nostro Consiglio Nazionale delleRicerche prevedeva un “Sottoprogetto Stress” (Sibilia, 1998) nell’ambito delnuovo Progetto Finalizzato di Prevenzione dei Fattori di Malattia (FATMA). D’altra parte, solo nel 1988 la Comunità Europea aveva avviato una “AzioneConcertata” su Stress: breakdown in adaptation nell’ambito dei programmidi ricerca scientifica in biomedicina (BIOMED).
Questo cambiamento legato all’introduzione dei fattori psicosociali come
fattori di malattia comprendeva la consapevolezza sempre più chiara dagli
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anni ’60 in poi che anche comportamenti individuali e abitudini di vita pote-vano essere responsabili di salute o di malattia. Ricerche cliniche, epide-miologiche e di laboratorio mettevano sempre più in luce il ruolo sia deicomportamenti protettivi per la salute sia dei comportamenti di rischio (danoi erroneamente chiamati “comportamenti a rischio”), e si diffondevanometodi psicoeducativi efficaci atti a modificarli.
Nasceva così un ambito nuovo del sapere, nell’interfaccia tra medicina e
psicologia. La prima espressione fu la “medicina comportamentale”, il cuimodello fondante non era più il modello biomedico naturalistico della malat-tia, ma un modello bio-psicosociale di salute e malattia. Non si riconoscevapiù nella malattia la realtà basilare da cui prendere le mosse, piuttosto si rico-nosceva nell’ambiente e nei comportamenti, nonché nei loro determinantipsicosociali, la base per comprendere salute e malattia.
Questa modificazione è stata anche favorita dal diffondersi delle malattie
cronico-degenerative, che ben raramente sono ascrivibili a un singolo fattorepatogeno, come quelle infettive, ma sono piuttosto legate a svariati fattori, mol-ti dei quali sono costituiti proprio dallo “stile di vita” della persona. Inoltre, lemalattie croniche raramente ammettono una guarigione. Pertanto, impongonodi dare priorità alla ricerca sui fattori di rischio da una parte, a fini preventivi,nonché sulle possibilità di recupero funzionale dall’altra, a fini riabilitativi.
Una volta accettato il principio che il recupero, il mantenimento o il mi-
glioramento funzionale fossero obiettivi altrettanto se non più opportunidella guarigione dalla malattia di base, si poneva inevitabilmente all’agendadi ricerca il problema di individuare i fattori che favoriscono tale recupero omiglioramento, nonostante la malattia. Lo studio cioè dei fattori di salute,intesa in senso positivo e non come semplice assenza di disturbi.
Le conoscenze cumulate finora hanno condotto a capire che questi si tro-
vano prevalentemente nell’ambito dei fattori psicosociali, cioè specifica-mente umani, pertinenti alle scienze umane e comportamentali. Abbiamoormai solide conoscenze su un’ampia gamma di tali fattori. Si possono cita-re, come semplici esempi, il sostegno sociale, il senso di coerenza, o l’au-toefficacia. Il sostegno sociale comprende numerose variabili come il nume-ro e la qualità dei contatti umani, nonché la disponibilità di persone che for-niscano aiuto, sostegno o consiglio a un soggetto, necessari in momenti dif-ficili. Per senso di coerenza si intende la percezione che il mondo siacomprensibile, prevedibile e i problemi che pone siano gestibili e che alla finfine le cose andranno come previsto dalla propria sociocultura. Per autoeffi-cacia si intende la valutazione che il soggetto dà della propria capacità diadottare il comportamento o il corso di azione richiesto o necessario nellesituazioni date, per adattarsi o realizzare i suoi scopi.
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È già intuitivo capire come queste variabili possano contribuire ad almeno
una delle componenti essenziali della salute, cioè il benessere emotivo. Rientra-no appunto in questo ambito le ricerche sulla felicità, che prima erano soltantoun argomento limitato alla psicologia sociale (Argyle, 1988). Come e in chemisura la felicità possa contribuire alla salute e possa essere “aumentata” èoggetto oggi di alcune ricerche di punta, come quella illustrata in questo libro.
Lo statuto epistemologico delle conoscenze sulla salute e i suoi determi-
nanti è oggi più provvisorio e precario di quello della biomedicina, sia perl’emergenza recente del nuovo modello “salutogenetico” (che qualcuno giàchiama nuovo “paradigma”), sia per una serie di nodi teorici e concettualiancora da sciogliere. Tuttavia, le conoscenze sui fattori umani di malattia edi salute sono già abbastanza ampie da poter essere introdotte nella forma-zione del medico e degli operatori sanitari, e utilizzate per lo sviluppo di pro-grammi preventivi.
Bisogna però constatare che il quadro attuale dell’assistenza e della pre-
venzione, nonché della formazione medica e della realtà sociale, è molto piùarretrato rispetto alla realtà della ricerca. Le conoscenze cui ho accennato suifattori umani ancora non fanno parte del bagaglio formativo del medico. Nonostante gli si riconoscano sempre più spesso compiti “educativi”, laformazione psicosociale del medico è ancora molto carente. Con il risultatoche il pubblico diserta sempre più spesso gli studi medici, preferendo tratta-menti a efficacia non dimostrata (o perfino a inefficacia dimostrata), purchécomportino almeno considerazione umana e rispetto per l’individualità.
Inoltre, il clima sociale sta rapidamente cambiando rispetto a quello otti-
mistico delle tre decadi successive alla guerra mondiale. Il Welfare State (initaliano: lo “Stato del benessere”) sta per essere gradualmente smontato. Leistituzioni dello Stato moderno, che si facevano carico di assicurare le con-dizioni affinché fossero soddisfatti i bisogni dei cittadini, già prima accen-nati, vengono appaltate a privati. Sempre di più la possibilità di soddisfarequei bisogni ricade di nuovo sulle risorse dei singoli. Le disparità socialiaumentano e con esse si riduce la salute delle popolazioni (Wilkinson, 1996). Le norme sono distorte in modo da essere rese sempre più favorevoli ai grup-pi economicamente più forti, a spese del cittadino. Quindi fattori economicidi base, quali il lavoro, il reddito, il potere di acquisto, vengono a essereintaccati da operazioni la cui denominazione in inglese (per es., il “downsi-zing” delle imprese) la dice lunga sulla necessità che non vengano chiariteall’opinione pubblica. L’abbandono delle campagne e l’immigrazione dimassa da altri continenti hanno creato sovraffollamento e contrasti culturali,aumentando criminalità e impoverimento anche nel nostro. L’aumento dellaprecarietà delle condizioni di vita accresce lo stress a livello di massa.
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Nuove forme di schiavitù si stanno creando da noi e nel mondo a seguito
della nota “globalizzazione”. La tecnologia, sempre più usata a scopo di pro-fitto, sta erodendo le risorse naturali e provocando un decadimento ambien-tale, i cui effetti sulla salute sono sempre più chiari. Mentre procede la “pri-vatizzazione del mondo”, secondo un’espressione di Ziegler (Ziegler, 2003),i rapporti internazionali si militarizzano, e in nome della lotta al terrorismo imargini di libertà acquisiti in Occidente nella seconda metà del XX secolocominciano a restringersi.
In questo quadro c’è quindi da chiedersi se la felicità non possa diventare
nel prossimo futuro di nuovo un fenomeno così provvisorio ed evanescenteda poter interessare solo una piccola élite, un genere di lusso per un fortuna-to gruppo sociale la cui salute non ha bisogno di essere promossa. Oppurec’è da chiedersi se non possa diventare un pericoloso miraggio per moltialtri, il cui perseguimento, magari sostenuto dai media, non condurrà a illu-sorie scorciatoie, quali per esempio il consumo di massa degli psicofarmacio delle sostanze da abuso. Ciò è quanto d’altronde sta già accadendo, peresempio con la “pillola della felicità”, il Prozac (Kramer, 1994), così comegià accadde sul finire degli anni ’70, con l’ormai noto “riflusso nel privato”,il ritorno dell’individualismo esasperato (Galli della Loggia, 1980) e l’irrom-pere dell’uso di droghe pesanti tra i giovani.
Argyle, M. (1988). Psicologia della felicità. Milano: Raffaello Cortina. Galli della Loggia, E. (1980). La crisi del “politico”. In AA.VV. Il trionfo del privato. Bari:
Kramer, P.D. (1994). La pillola della felicità. Milano: Sansoni. Sibilia, L. (1995). La Qualità della vita. Editoriale. Psicoterapia Cognitiva e Comportamen-
Sibilia, L. (a cura di) (1998). Psicologia, Stress e Salute Cardiovascolare. Roma: CNR. Wilkinson, R.G. (1996). Unhealthy Societies – the afflictions of inequality. London:
Ziegler, J. (2003). La privatizzazione del mondo. Milano: Marco Tropea.
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Le tematiche che tratta questo libro per noi si possono far risalire agli anni’60 e ’70 e qui vogliamo esprimere un nostro punto di vista.
In quegli anni in Italia vi fu il boom economico e contemporaneamente un
insieme di cambiamenti sociali che esplicitamente o implicitamente parlava-no di nuovi valori: di salute, di benessere, di partecipazione e di Qualità dellaVita.
L’Italia era ormai uscita dal dopoguerra. Da un lato con l’allontanarsi del
dogmatismo di sinistra cominciò a riattualizzarsi e a rifiorire il pensierogramsciano come riaffermazione della ricerca di giustizia e riscatto socialeattraverso la partecipazione delle masse lavoratrici alla vita democratica eallo sviluppo economico della nostra società. Si riproponeva il binomio del1946-47 “giustizia e libertà”. Dall’altro vi è stato a mio avviso una signifi-cativa evoluzione del pensiero cattolico da De Gasperi, a Dossetti, aGiovanni XXIII, a Paolo VI, ad Aldo Moro.
Sullo sfondo di un grande e abbastanza omogeneo sviluppo economico e
dell’apertura sempre maggiore del dialogo politico in senso liberale e socia-le, si manifestarono i primi movimenti importanti verso un nuovo concettodi benessere, di salute e di partecipazione di base. Il Welfare non fu critica-to se non per i suoi aspetti palesemente negativi
Nella seconda metà degli anni ’60 iniziano e si sviluppano le prime batta-
glie per la salute nelle fabbriche, per la prevenzione delle malattie e degliinfortuni sul lavoro e la non monetizzazione del rischio. La classe operaia,forse per la prima volta, davanti alle tradizionali rivendicazioni salariali ponela rivendicazione della tutela della salute nei luoghi di lavoro e di un miglio-ramento delle condizioni di lavoro, anche da un punto di vista psicologico(AA.VV., 1971a; AA.VV., 1971b; AA.VV., 1972). Fra le rivendicazioni,infatti, vi è anche quella relativa al “quarto gruppo dei fattori nocivi”, cioè fat-tori che generano patologia psichica (Goldwurm, 1972). Vale a dire condi-zioni di lavoro, diverse dal lavoro fisico, che provocano effetti stancanti, affa-ticamento cronico difficilmente recuperabile, frustrazioni psicologiche. Fra
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queste condizioni vi sono: monotonia, parcellizzazione, ritmi eccessivi, satu-razione dei tempi, ripetitività, posizioni disagevoli, pesanti turni e orari dilavoro, eccessiva responsabilità che rendono l’uomo un’appendice della mac-china, uno strumento passivo di un’organizzazione del lavoro a lui estranea.
Altri fattori psicopatogeni sono stati allora denunciati dai lavoratori, come
la pericolosità per l’integrità dell’Io somatico e psichico, il vissuto psichicodi un rischio reale, i rapporti autoritari, le frustrazioni sistematiche, il lavoroalienante, la dequalificazione professionale, l’insicurezza economica o delposto di lavoro e varie altre situazioni il cui effetto principale era il disagioo la vera e propria patologia psichica (Goldwurm, 1971).
Ciò era già stato evidenziato dalla letteratura psichiatrica (vedi
Goldwurm, 1972), ma in questo caso vi è la presa di coscienza dei lavorato-ri che lottano per eliminare anche il rischio provocato dal malessere psichi-co, in definitiva lottano per un lavoro che crei benessere psicologico e nonmalessere.
L’avanguardia operaia nelle grandi fabbriche del nord, partecipando con
il metodo dei gruppi omogenei (omogenei per condizioni di rischio) (Gold-wurm, 1972), che si riuniscono a livello di base ed elaborano piattaformerivendicative, spesso con la collaborazione di intellettuali e tecnici speciali-sti, mediate dai sindacati, pone quindi implicitamente il tema della Qualitàdella Vita nei luoghi di lavoro, in primo luogo come fonte di promozionedella Salute (AA.VV., 1973; Oddone, 1975).
Questa idea poi esce dalle fabbriche e i lavoratori, essendo anche cittadi-
ni, pongono con la forza il problema della prevenzione delle malattie e lapromozione della salute nei luoghi di vita. Nei comuni, consorzi di comuni,province e regioni, omogenee per rischio sanitario, è necessario fare unapolitica socio-sanitaria adeguata non solo per curare le malattie, ma in primoluogo per eliminare i rischi e promuovere la Salute (Goldwurm, 1975).
Il cittadino e il lavoratore sono la stessa persona, e fabbrica e società sono
intercomunicanti, difendere l’una vuol dire difendere l’altra. E la rivendica-zione da sindacale si fa politica.
Questo è il principio della Riforma Sanitaria che vede nelle Unità
Sanitarie Locali, il luogo “omogeneo” ove tutte le risorse socio-sanitariedevono concorrere e promuovere la Salute dei cittadini, siano lavoratori o no(AA.VV., 1963).
Questa è anche la frontiera della Nuova Medicina che si fa largo sempre
più in quegli anni (Berlinguer, 1968).
Anche il movimento del ’68, definendolo alcuni quello della “nuova clas-
se operaia” o dei “colletti bianchi” con ambizioni egemoni, pone in primoluogo il problema della partecipazione e del potere decisionale di ormai lar-
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ghe masse del ceto medio, di studenti, di intellettuali, di professionisti, di im-piegati e di dirigenti.
Vi è una nuova identificazione e socializzazione di individui prima isola-
ti che chiedono ora partecipazione come gruppo che porta nuovi specificiproblemi e valori nel Welfare State.
Abbiamo visto da recenti lavori (Butler e Ranney, 1994; Frey e Stutzer,
2000, 2002; Veenhoven, 2001), come la prospettiva di partecipazione e lapercezione di avere un peso sociale nelle decisioni democratiche delle pro-prie comunità è fattore di benessere soggettivo e di felicità.
Si potrebbe allargare il discorso dicendo che pure la forte immigrazione
di lavoratori dal Sud Italia ha contribuito al cambiamento della nostra interasocietà, mescolando valori fino ad allora parzialmente tenuti distinti(Grossoni e Goldwurm, 1963; Goldwurm e Ravasini, 1964).
Anche il dibattito sui bisogni radicali e indotti, in quell’epoca introdotto in
Italia dai libri di Agnes Heller, ha avuto un ruolo come accenneremo nel cor-so del nostro libro (Heller, 1974, 1978; Rovatti et al., 1976). La Heller, cheassieme a Lukacs fa parte della “Scuola di Budapest”, formula “La teoria deibisogni radicali [dice Rovatti] quei bisogni che si generano nell’ambito dellostesso capitalismo e che comportano la radicale rivoluzione del modo di vitaborghese, non solo delle forme politiche. I temi della critica della vita quoti-diana e della centralità dell’individuo sociale, che la Heller eredita da Lukacs,acquistano qui (sulla spinta del movimento politico scoppiato nel ’68) lo spes-sore di un’analisi concreta e politica”. E benché la Heller ritrovasse “in Marxla centralità del concetto di bisogno e l’irrinunciabilità di una teoria dei biso-gni radicali” fu attaccata dal Partito Comunista ungherese e ha costituito uncaso di dibattito politico e culturale anche in Italia.
Il dibattito sulla teoria dei bisogni in Marx fu fatto allora essenzialmente
dal punto di vista filosofico ed economico-politico (Adornato, 1976; Mineo,1977).
Tuttavia, da un punto di vista psicologico e psichiatrico scrivevo in que-
gli anni (Goldwurm, 1977, pp. 199-200); “il problema dei bisogni in psi-chiatria si è fatto ora più attuale perché il movimento della Riforma Sanitariaha posto nel nostro Paese, come essenziale, la questione della prevenzioneprimaria e della partecipazione, e perché le distorsioni dello sviluppo capita-listico della nostra società e la crisi economica hanno imposto una riflessio-ne sulla esigenza di una nuova Qualità della Vita e di un nuovo ruolo delleclassi lavoratrici nel nostro paese. Nell’individuo i bisogni sono un anellodella catena del comportamento, l’individuo si trova ad avere una serie di‘bisogni socialmente determinati’ (e quindi storicamente sviluppatisi) chemotivano il suo comportamento. A questo livello, però, può sorgere una serie
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di contraddizioni sociali che si riflettono nell’individuo come contraddizio-ni fra l’individuo e la società, o come contraddizioni e conflitti intrapsichici,con relativa sofferenza e modificazione del comportamento”.
Altro aspetto della evoluzione della nostra società in quegli anni è stato
l’acquisizione di alcuni diritti civili fondamentali.
Se è vero come dice Fordyce (2000) che un buon matrimonio contribui-
sce in larga parte alla nostra felicità, è anche vero che un’unione deterioratae forzata può rendere tutti molto infelici. L’introduzione del divorzio può eli-minare questa fonte di infelicità e aprire eventualmente la porta a un altromatrimonio che ci renda più felici del primo.
Queste e altre acquisizioni hanno contribuito, anche sul piano psicosocia-
le, ad affermare i diritti di parità e dignità delle donne nel contesto sociale,cosa che vari Autori ritengono fonte di benessere e felicità (Veenhoven,2001).
Nell’ambito della Psichiatria all’inizio degli anni ’60 si è sviluppato per
merito di Basaglia il movimento anti-istituzionale, che mirava a togliere imalati di mente dai manicomi, a “ristoricizzarli”, prima facendoli partecipa-re con assemblee alla vita dell’ospedale psichiatrico, poi reinserendoli nelleloro famiglie e nel loro territorio, assistendoli e nello stesso tempo facendoloro riacquistare dignità e potere di cittadini (Basaglia, 1968; Goldwurm eDe Prà, 1976a; Goldwurm e Alberti, 1978).
Questa non fu solo battaglia della scienza psichiatrica, ma anche della
classe operaia (Goldwurm e De Prà, 1976b) e della società civile; battagliadi civiltà che dopo tante lotte si è conclusa sul piano legislativo con la legge180 e la Riforma Sanitaria del 1978, ma che sul piano pratico dura tuttora(Goldwurm 1978).
Anche l’opera di Basaglia e di tutti noi mirava non solo a eliminare i
disturbi psichici, ma a rendere la vita dei nostri “malati” degna della vita diun uomo. Un uomo che avesse il suo posto nella società e potesse essere feli-ce (Goldwurm e De Prà, 1976a, 1976b). Come vedremo nel capitolo 2, que-sto è un problema ancora aperto, che però per noi è partito dalla critica all’i-stituzione manicomaniale e dalla Riforma, e quindi dal progressivo inseri-mento dei pazienti nelle loro comunità. Questo cambiamento positivo neipazienti fu da noi osservato nel corso della nostra esperienza di deistituzio-nalizzazione. Ma anche vari Autori stranieri avevano messo in rilievo, e lomettono tuttora, che la vita dei pazienti psichiatrici in comunità risulta qua-litativamente migliore che nell’ospedale psichiatrico e tutto ciò ha contri-buito a far riconoscere le nuove dimensioni del benessere psicologico di cuihanno bisogno queste persone (Stein e Test, 1980; Lehman et al., 1986; Cial-della, 1992; Sartorius, 2001).
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È interessante notare che nella seconda metà degli anni ’70 sono sorte in
Italia le facoltà di Psicologia, che hanno permesso non solo di ravvivare que-sti studi, ma di preparare un gran numero di psicologi. Col tempo questa ten-denza si è ulteriormente sviluppata e ciò significa che la nostra società sen-tiva e sente il bisogno di aiuto psicologico, non solo psicoterapeutico, maanche di supporto per migliorare la vita di individui e istituzioni nel senso“di vivere meglio psicologicamente”.
A nostro avviso, quindi, negli anni ’60-’70 si va formando una base ogget-
tiva strutturale nuova che segue quella di altri paesi occidentali più avanza-ti, come i paesi anglosassoni.
In primo luogo, ai consolida la dialettica democratica fra le classi sociali.
Si ha un notevole sviluppo economico e una maggiore diffusione del benes-sere materiale.
Vi è un progressivo emanciparsi e svilupparsi delle classi lavoratrici, un
emergere dei gruppi di sottoprivilegiati. Questi chiedono partecipazione epongono istanze rivendicative nuove in cui si fa largo il bisogno di salute edi benessere soggettivo.
La classe operaia in particolare e la piccola e media borghesia sono ini-
zialmente le forze motrici di un cambiamento strutturale e sono guidate daistanze ideali che giustificano la loro lotta, facendole sentire protagoniste delprogresso sia sociale che politico.
Lo sviluppo delle prospettive del mondo del lavoro (La Rosa, 1983) pon-
gono l’esigenza di valutare gli aspetti qualitativi del modo di vivere e dilavorare e non solo quelli qualitativi ed economici.
Nel complesso, poi, tutta la società civile pone istanze di rinnovamento
qualitativo che tenga maggiormente conto della soggettività individuale. Ciòinveste l’ambiente di vita, i rapporti fra gli individui, la scuola, l’assistenzasocio-sanitaria e in modo sui generis anche l’assistenza psichiatrica. Lamedicina ne è investita in prima istanza e le problematiche della salute,accanto alla dimensione biologica recuperano quella sociale e psicologicadiventando sensibili alla Qualità della Vita dei cittadini.
Sulla base di questi cambiamenti strutturali si fa strada particolarmente in
ambito sociologico una critica al Welfare State e una riflessione che valoriz-za il concetto di Qualità della Vita. Sociologi come Martinotti, Ardigò,Donati ecc. (vedi Demarchi, 1987) in Italia contribuiscono in misura note-vole ad analizzare la storia, le cause e le soluzioni a noi adeguate. Questopercorso che descriveremo nel primo capitolo, segue a distanza di pochi anniun analogo percorso fatto dalla società americana (Wingo ed Evans, 1977;Demarchi, 1987).
Tuttavia è possibile che su quest’onda, sul finire degli anni ’80, si realiz-
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zi un ulteriore cambiamento sociale e psicologico, favorito anche dai grandicambiamenti tecnologici e politici.
Ai grandi ideali dello Stato sociale del dopoguerra, e facendosi più acuto
il disfacimento del Welfare State, viene a contrapporsi una dimensione pri-vatistica, volontaristica e individualista dei rapporti sociali e istituzionali. Èquella che Ingrosso (2003) chiama società a rischio e che travolge le nuovegenerazioni degli anni ’90, che malgrado un relativo benessere si sentonopsicologicamente insicure e comunque bisognose di acquisire e accrescereuna loro felicità interiore, per così dire privata.
Seligman (2003) nel commentare l’epidemia di depressione psichica fra
le nuove generazioni americane, chiama in causa la caduta di valori familia-ri, religiosi e statali, che si associano a un aumento del benessere materialema nello stesso tempo mette in evidenza l’accentuarsi in queste generazionidell’individualismo e dell’isolamento sociale. Da qui il pessimismo per man-canza di valori, di ideali e di prospettive per cui valga la pena combatterenella vita.
Se vogliamo analizzare la nostra società con la lente di Seligman, credo
che possiamo trovare anche noi una battuta d’arresto nei secondi anni ’80 eprimi anni ’90.
Sarebbe da studiare se fattori cognitivi negativi (e per quale causa) abbia-
no giocato in quell’epoca un qualche ruolo nel determinare nei secondi anni’90 e negli anni 2000 questo singolare bisogno di felicità individuale di cuisi è accennato.
Anche la Psicologia Positiva (che si propone di migliorare il benessere
nelle persone sane) nasce all’incirca in quest’epoca.
Forse anche per noi sono caduti degli ideali. La crisi del Welfare State, che non è stato sostituito dal Welfare Society
come alcuni prevedevano, ha teso a valorizzare il privato, a creare unasocietà del rischio, ad aumentare un malessere che cognitivamente si tra-sforma in preoccupazioni, pessimismo, pensieri negativi.
Noi cerchiamo nel privato “nelle relazioni intime” quella sicurezza e quel-
la soddisfazione che la Società globalizzata in generale non ci può più dare.
La Società ci dà il “pacchetto minimo di beni e di sicurezza” (e non sem-
pre), ma le esigenze di un maggior benessere soggettivo lo dobbiamo soddi-sfare altrove.
Alcuni osservano che essere felici è un atto “egoistico” e che può portare
a un “deterioramento della società”, a un dissolversi dell’impegno eticosociale in un orizzonte strettamente individuale o famigliare, che rifiuta difarsi carico di problemi comuni più vasti, di utilità collettiva.
Orbene, gli studi sui fattori che rendono felici gli uomini mettono in evi-
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denza che le persone felici si occupano di cose significative che danno unvalore alla loro vita, e che questa non può essere chiusa in un orizzonte“egoistico” privo di rapporti sociali e di un progetto di vita pieno di valoreper noi e per gli altri.
Forse se ci sentiamo infelici è perché da un lato manca questo rapporto di
socializzazione e di valore sociale del nostro operare in funzione di ideali easpirazioni adeguate, e dall’altro i nostri schemi cognitivi ci fanno percepireuna realtà e un “noi stessi” in rapporto con la realtà che ci riempie di preoc-cupazioni, di pensieri negativi e di pessimismo.
Mi sono reso conto ora che formulando queste riflessioni ho ripercorso la
storia dei 14 fondamentali di Fordyce, cioè di quelle caratteristiche che pos-sono aiutarci a essere più felici.
Nella Parte I del libro che andiamo presentando si parla della Qualità della
Vita (QdV), della nascita del suo concetto e del contesto sociale in cui è statoformulato, focalizzando la sua relazione con i problemi della Salute.
Nella Parte II si parla del “cuore” della QdV e cioè del Benessere Sogget-
Si analizza la sua definizione, le sue componenti, nonché le variabili che
sono poste in relazione col Benessere psicologico e possono influire nelcrearlo, mantenerlo o modificarlo.
Sono riflessioni che si attualizzano quando a parità di condizioni esterne
o a causa di esse avvertiamo il malessere, la mancanza di qualcosa nelprofondo del nostro animo che è la soddisfazione per la nostra vita, la feli-cità come stato o tratto psicologico.
La Parte III risponde alla domanda se è possibile apprendere uno stile di
vita che ci renda più felici. E Fordyce ci risponde indicandoci i 14 fonda-mentali.
Di questi tempi si legge spesso sui mass-media, giornali, riviste, volumetti
divulgativi, osservazioni, consigli, prescrizioni che riguardano la felicità, ilbenessere, il buon umore ecc.
Questo indica la diffusione del bisogno di benessere fra la gente comune
o sana e normale, e nel contempo la raggiunta coscienza del valore della feli-cità e del diritto a essere felici.
Vale a dire siamo arrivati al 14° fondamentale, cioè la presa di coscienza
che la felicità è importante e che bisogna fare qualcosa per raggiungerla.
Questo fare qualcosa viene indicato dagli altri 13 fondamentali, che indi-
cano le caratteristiche delle persone felici e cosa fare per esserlo.
La Parte III è dedicata a questo, indicando un metodo per apprendere
quelle caratteristiche fondamentali che ci possono rendere felici. In primoluogo è possibile individuare quali sono gli aspetti deficitari e incongrui del
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nostro modo di vivere e di pensare. In secondo luogo si possono apprenderemodalità comportamentali e cognitive che, se giustamente applicate, posso-no ovviare alle nostre mancanze e a lungo andare renderci la vita più accet-tabile. Permetterci di sorridere e far sorridere.
Ovviamente calato nella realtà della nostra vita tutto questo non è così
semplice, non è “una formula”, è un’indagine che va approfondita e perso-nalizzata e dove ognuno scopre qualcosa di sé che vale la pena di essere ela-borato, purché alla base di questo lavoro interiore vi sia la convinzioneprofonda che la felicità è un valore importante che vale la pena di essere per-seguito.
La Parte III si conclude esponendo un nostro lavoro scientifico in cui si
sperimenta il metodo del Subjective Well-Being Training, accompagnato daun accurato assessment psicologico su gruppi di studenti. Da questo esperi-mento, ovviamente limitato, anche se si inserisce in una serie di esperimen-ti analoghi fatti da altri studiosi, si ricava la convinzione che agendo in modoadeguato sia possibile migliorare il proprio Benessere Soggettivo, in sostan-za apprendere a essere più felici.
Pensiamo quindi che questo libro, sia per lo sforzo riassuntivo corredato
da numerosa bibliografia, sia per l’esposizione del metodo e dei risultatidella nostra ricerca, possa essere di utilità per nostri lettori.
Gli Autori sono grati agli studenti della Scuola Quadriennale di FormazioneComportamentale e Cognitiva di Milano (Scuola ASIPSE) che hanno vali-damente collaborato alle ricerche esposte in questo volume. Ringraziano,inoltre, la casa editrice McGraw-Hill per aver reso possibile la pubblicazio-ne del progetto, e l’editor Luciana Dambra per la disponibilità e l’efficacesupporto.
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Efectos Adversos de la Terapia Antirretroviral Dr. Raúl Gutiérrez Rodríguez, Dr. Leslie Soto Arquiñigo Médicos del Instituto de Medicina Tropical Alexander von Humboldt de la Universidad Peruana Cayetano Heredia Glóbulos rojos en condiciones de anemia Los efectos adversos han sido reportados con el uso de casi todos los antirretrovirales y son una de las condiciones
& 2003 International Spinal Cord Society All rights reserved 1362-4393/03 $25.00The short-term effect of hippotherapy on spasticity in patients with spinalcord injuryHE Lechner*,1, S Feldhaus2, L Gudmundsen2, D Hegemann2, D Michel2, GA Za¨ch2 and H Knecht11Institute for Clinical Research, Swiss Paraplegic Centre, Nottwil, Switzerland; 2Swiss Paraplegic Centre,Nottwil, SwitzerlandStudy